Lo scenario curdo

A Ginevra il rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan de Mistura, sta con enorme difficoltà portando avanti una complicata opera di mediazione tra le diverse fazioni siriane in conflitto. A rendergli difficile il lavoro ci si mettono un po tutti.

Gli ultimi, in ordine di tempo, sono i Curdi. Una delegazione del potente Partito dell'Unione democratica curdo siriana (PYD), guidata dal suo presidente Saleh Muslim, era arrivata a Ginevra nei giorni scorsi per partecipare ai colloqui di pace, ma ha trovato le porte sbarrate; i rappresentanti delle forze di opposizione che li accusano di essere alleati di Bashar al Assad, la Turchia che considera il PYD un'organizzazione terrorista affiliata con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), la bestia nera da sempre di Ankara, e i Sauditi, forse per fare un favore a Erdogan, hanno preteso che i curdi non partecipassero ai negoziati.

Immediata la reazione stizzita di Muslim, che ha dichiarato seccamente che la forzata assenza del suo movimento dal tavolo negoziale li avrebbe autorizzati a non aderire ad alcuna decisione che dovesse essere presa a Ginevra, compreso un eventuale accordo di cessate-il-fuoco. Dichiarazione che ha non poco preoccupato i diplomatici dei paesi coinvolti in Siria e nella guerra a Daech, dal momento che le milizie armate del PYD sono state tra le poche, sul campo, ad essere capaci di arginare e di respingere le offensive dell'Esercito Islamico in Siria.

Mosca, tramite il suo rappresentante permanente alle Nazioni Unite, Alexey Borodavkin, ha subito reclamato affinché la delegazione curda partecipi ai colloqui in corso a Ginevra; i curdi del PYD sono cittadini della Siria che hanno il diritto di essere coinvolti nei colloqui sul futuro del loro paese, ha detto l’ambasciatore russo. Anche al capo della delegazione americana, il leader del PYD ha espresso la propria amarezza; i curdi si sono sentiti umiliati dalla comunità internazionale che li cerca quando si tratta di combattere i jihadisti di Daech ma li ignora quando si deve decidere il futuro della Siria e della loro stessa sopravvivenza. La popolazione di etnia curda rappresenta la maggioranza del nord- est della Siria, nella zona conosciuta come Rojava o Kurdistan siriano. Nel 2012, nel corso della guerra civile siriana, le forze governative di Damasco si sono ritirate da tre aree abitate dai curdi, Afrin, Jazira e Kobane, e il controllo è passato al Comitato Supremo curdo, istituito con il Partito dell'Unione Democratica (PYD) e il Consiglio Nazionale Curdo (KNC).

Da oltre tre anni la resistenza kurda, del PKK e del YPG –il braccio armato del PYD- infligge pesanti sconfitte allo Stato Islamico. Prima in Siria, fronteggiando i jihadisti che da tempo controllano militarmente parte del Rojava e che hanno stabilito a Raqqa la propria capitale; poi al confine turco-iracheno, in seguito alla ritirata dei peshmerga, i militari curdi iracheni, addestrati dagli esperti del Pentagono. Il 26 gennaio 2015 gli uomini dell’YPG hanno liberato dall’assedio degli jihadisti la città di Kobane, che era sotto attacco dal luglio del 2014. I miliziani di Daech si sono dovuti arrendere alla tenace resistenza degli abitanti curdi, uomini e donne, che si sono difesi casa per casa. Oltre duemila sono stati i caduti curdi in combattimento.

I curdi considerano l’area di Rojava parte di un grande Kurdistan che comprende anche le zone nel sud-est della Turchia (Kurdistan turco), nord-Iraq (Kurdistan iracheno), e nord-ovest dell'Iran (Kurdistan iraniano). Il sogno di tutti i leader curdi è che si compia la promessa fatta nel 1920, all’indomani dello smantellamento dell’Impero Ottomano, di uno Stato indipendente curdo. Se si pensa che la popolazione curda è stimata intorno ai 50 milioni, uno stato indipendente di tali proporzioni, in una zona ricca di petrolio ma anche molto turbolenta, in un momento storico così particolare e drammatico, potrebbe turbare il sonno a più di un leader dei paesi vicini. Devono dunque aver destato qualche turbamento ad Ankara, Damasco e Baghdad, le recenti parole del presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Massoud Barzani, che ha chiesto nei giorni scorsi che si possa andare al più presto alle urne per un referendum popolare per l'indipendenza della sua regione.

Barzani si era già ripetutamente appellato al referendum per l’indipendenza da Baghdad, ma questa volta sembra faccia sul serio. Il governo autonomo del Kurdistan avrebbe esaurito le risorse finanziarie allocate dal governo centrale e la drammatica situazione nella quale versa l’Iraq, tra guerra a Daech, difficoltà gestionale per dissidi tra i partiti al potere e quadro economico negativo, lascia pensare che le rimesse verso Erbil nei prossimi mesi saranno ancora più esigue. I rapporti con il governo del Primo Ministro Al Abadi poi 2 non sono idilliaci: le aspirazioni indipendentiste dei curdi sono viste a Baghdad come il fumo negli occhi, come una pugnalata alle spalle, nel momento in cui l’Iraq invece dovrebbe ergersi unita contro la minaccia terrorista di Daech.

Il governo di Barzani sente anche molto forte la pressione sui propri confini territoriali; Turchia, Iran e Califfato fanno sentire il loro peso e creano tensioni palpabili a Erbil. Qualche voce critica verso l’esecutivo si è levata nelle ultime settimane nella capitale curda. Il presidente curdo teme dunque di perdere consenso tra i suoi sostenitori e alza la posta in gioco, anche se la sua mossa rischia di sparigliare le carte sul tavolo e aumentare il già confuso quadro internazionale. I curdi godono di grande simpatia e hanno diritto al rispetto e all’autodeterminazione, come tutti i popoli. E’ l’augurio che facciamo tutti. Prima però occorre mantenere l’unità della comunità internazionale con l’obiettivo di sconfiggere il nemico comune - il terrorismo jihadista - e ritrovare la pace e la stabilità in una regione a noi cara e vicina.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:41