Daesh e le sue “risorse”

Daesh, o come lo chiamano i membri del gruppo, “al-Dawla”, “lo Stato”, stanno in queste ore perdendo posizioni in varie zone della Siria e dell’Iraq. Ma non illudiamoci. Infatti la loro risposta, se questo fosse possibile, è ancor più violenta di prima.

In questi ultimi giorni, notizie agghiaccianti provengono da Bruxelles, cuore politico e Istituzionale di questo vecchio malato che è l’Europa e ancora pochi giorni prima gli attentati in Turchia o prima Damasco con la strage al santuario sciita Sayyda Zeinab, che ha contabilizzato ben 60 morti e oltre cento e, ancor più crudele, è stato l’attacco che Boko Haram ha fatto a Maiduguri in Nigeria causando 86 morti con bambini bruciati vivi. I Jihadisti hanno assaltato il villaggio di Dalori e appiccano il fuoco. Molti abitanti sono morti nel rogo.

Ormai è a tutti chiaro che la vera forza dei terroristi del Califfato sono i numerosi fondi che arrivano all’Organizzazione e alla loro capacità di trarre profitto dalle devastazioni in Iraq, Siria e ora Libia per accaparrarsi dei pozzi di petrolio affinché possano vendersi il petrolio sottratto al mercato nero, sempre in ottima salute!

Abbiamo purtroppo potuto notare che la loro macchina di morte può portare incubi da Parigi a Sharm el-Sheikh, dalla Siria al Nord Africa, dall’Iraq a San Bernardino, insomma, anche se si continua ad affermare che vi sono in giro per il mondo dei cani sciolti pazzoidi che in una sorta fai da te si muovono per conto loro e al grido di “Allahu Akbar” ammazzano a casaccio, come per esempio è accaduto nel centro disabili in California lo scorso 2 dicembre, o ancora a Ouagadougou in Burkina Faso, il core dell’organizzazione terroristica è l’organizzazione certosina delle cellule dormienti o meno, dagli ormai noti foreign fighters, al recupero di armi, munizioni, esplosivi. Insomma, servono contatti, passaporti puliti, addestramenti, far attraversare confini e trovare rifugi sicuri, tutto questo mandando avanti la macchina bellica sul campo nei Paesi del loro, cosiddetto Stato Islamico e del Levante. Inoltre, oltre a questi costi, lo. Stato Islamico ha diverse spese relative alle sue attività di governo nel territorio del Califfato, come la gestione delle scuole, le mense, il sistema giudiziario basato sulla sharia, la polizia religiosa, paga i suoi miliziani più di qualsiasi altra polizia dei Paesi della regione. Insomma, per far “girare” tutto questo servono soldi e tanti!

Ne usano tanto per esempio per la propaganda e appunto per il reclutamento o la capillarizzazione del messaggio (molta attenzione viene data al fattore mediatico, infatti, oltre ai famosi filmati ben studiati delle decapitazioni e crudeltà varie, si usano le nuove tecnologie e i social media per raccogliere le donazioni di singoli individui: la rivista Al-Naba , pubblicazione gestita dall’Is, per esempio, tiene informati i donatori sui progressi delle operazioni militari, mentre su Twitter è possibile vedere le foto degli equipaggiamenti militari e degli avanzamenti territoriali del gruppo. Insomma, sono ben organizzati per dedicarsi a queste due strutture.

Non bisogna dimenticare che Daesh genera un enorme volume di entrate al suo interno, ma tutto questo denaro non viaggia in valigette bensì entra in circuiti finanziari e bancari per far sì che tutto il denaro venga trasferito. Ed è qui che bisogna intensificare le indagini, le investigazioni, il controllo. Capire chi è complice del Califfato. Chi apre per loro conti cifrati in quei Paesi. A seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti e i loro alleati usarono tutte le loro forze per smantellare il sistema di finanziamento usato da Al-Qaida, basato soprattutto su donazioni esterne: addirittura Osama bin Laden si lamentò con i suoi della mancanza di fondi nelle casse dell’organizzazione.

Oggi, ripeto, i nuovi sistemi di finanziamento si basano sempre più su fondi raccolti localmente e meno su finanziamenti esterni (comunque, anche se in forma molto ridotta, ancora presenti). Per esempio, Al-Qaida nel Magreb Islamico (Aqim) – gruppo da cui mesi fa si sono staccati i miliziani algerini, basa le sue entrate soprattutto su rapimenti e successive richieste di riscatti, e traffici illegali – per esempio di opere d’arte – che garantiscono profitti per decine di milioni di dollari. Come afferma il professor Jimmy Gurulé, della Notre Dame University, il modello di finanziamento di Daesh è diametralmente opposto a quello di Al-Qaida. Mentre quest’ultima aveva un costante flusso di denaro che da fuori arrivava all’interno dell’organizzazione, il Califfato genera denaro dal suo interno e poi distribuisce risorse all’esterno. Ecco perché, se vogliamo, tutto questo è ancora più pericoloso. Infatti questo modello è molto più difficile da controllare e monitorare, tutto è più “liquido”. E ad oggi l’Occidente, appunto, non ha ancora trovato una strategia per fermare questi enormi flussi di denaro. In queste ore, certo, si stanno bombardando colonne di autobotti di contrabbando di petrolio lungo il confine della Turchia, ma bisogna anche guardare altrove, mettere da parte la realpolitik e chiedere agli arabi di non facilitare più ingressi sicuri nel sistema finanziario. Per molti mesi le finanze dello Stato islamico si sono basate sui ricavi di operazioni criminali, di rapine e di vendita del greggio estratto da pozzi petroliferi iracheni e siriani. Secondo alcune stime, la vendita di petrolio garantirebbe all’Isis un profitto di circa 1,5 milioni di dollari al giorno.

Più di recente, come afferma, il New York Times, i miliziani dello Stato islamico hanno avviato una vera e propria economia di guerra: Daesh controlla magazzini e raffinerie e ha messo in piedi un sistema molto articolato di estorsioni ai danni di imprenditori e di vendita di ex proprietà governative ed equipaggiamenti militari americani (tra cui anche gli Humvee, veicoli militari dell’esercito americano sequestrati dalle basi militari irachene e forniti dagli Stati Uniti al governo di Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein). Come già anticipato, Daesh usa anche le nuove tecnologie e i social network per raccogliere le donazioni di singoli individui: la rivista Al-Naba, una pubblicazione gestita direttamente dal Califfato, tiene informati i donatori sui progressi delle operazioni militari, mentre su Twitter è possibile vedere le foto degli equipaggiamenti militari e degli avanzamenti territoriali del gruppo.

Daesh ha inoltre ottenuto anche circa mezzo miliardo di dollari sequestrando i contanti tenuti nelle banche nell’Iraq settentrionale e occidentale, durante la rapida avanzata dell’estate del 2014. Altre fonti di guadagno sono: la rivendita di armi e mezzi militari americani ottenuti dalla conquista di basi militari irachene; la vendita o l’affitto di case di persone che sono state uccise o che hanno lasciato quel territorio dopo l’arrivo dell’Isis; i contanti in valute forti portati dai cosiddetti “foreign fighters” arrivati nel Califfato Islamico per combattere; la vendita di orzo e grano coltivati nelle terre controllate dall’Isis (secondo Thomson Reuters se orzo e grano fossero venduti al mercato nero anche solo al 50 per cento del loro valore, potrebbero generare più di 200 dollari annui di profitto); la vendita di solfato, solfuro e cemento (secondo Thomson Reuters se acido solforico e acido fosforico fossero venduti al mercato nero anche solo al 50 per cento del loro valore, potrebbero generare più di 300 dollari annui di profitto); e il traffico di esseri umani, soprattutto la vendita ai mercati delle schiave di donne.

Altra fonte è il traffico di droga che Daesh non lesina, anzi. La droga che, oltre ad essere usata dai jihadisti dell’Isis per inibire la paura durante le loro azioni terroristiche (come si è scoperto nella camera dell’hotel dove alloggiava Salah Abdeslam, uno dei terroristi che ha partecipato agli attacchi di Parigi o ancora, a seguito dell’attentato sulla spiaggia di Sousse, in Tunisia, in cui sono state uccise 38 persone, dall’autopsia sul corpo dell’attentatore Seifeddine Rezgui) e usata per trafficarla anche internazionalmente, ed è il Captagon o fenitillina. Il Captagon viene prodotto a partire dalla fenitillina, una molecola anfetaminica che viene mischiata con la caffeina. Questa combinazione stimola la dopamina e migliora la concentrazione dell’individuo, secondo lo psichiatra libanese Elie Chédid, intervistato dall’Orient-Le Jour. Per queste ragioni in passato il Captagon era usato come farmaco, in particolare per il trattamento della narcolessia e dell’iperattività, prima di essere considerato una sostanza che crea dipendenza, ed essere vietata in molti paesi dal 1980. Dopo il 2011, la fabbricazione di Captagon in Libano, che fino a quel momento era stato il primo Paese produttore, si è spostata in Siria. Come emerge da uno studio dell’Internazionale, la maggior parte delle pillole è ora prodotta in Siria. La droga viene poi trasportata in barca o in auto dalla Siria, in Libano e Giordania. Secondo le cifre dell’Organizzazione mondiale delle dogane (Omd), la quantità di pillole sequestrate nel Paese della penisola arabica è aumentata: nel 2013 sono state sequestrate undici tonnellate di Captagon contro le quattro tonnellate dell’anno precedente. Venduto a un prezzo che va dai 5 ai venti dollari a pasticca, il Captagon ha un potenziale economico enorme.

Insomma, per colpire alle fondamenta Daesh bisogna colpire alla radice il problema, prosciugare le fonti, tracciare i flussi di denaro e bloccarli. È ormai chiaro a tutti che i paesi arabi sunniti del Golfo Persico – tra cui Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Kuwait – finanziano i gruppi che combattono contro il regime sciita di Bashar al-Assad, alcuni dei quali estremisti e considerati “terroristi” dai Paesi occidentali. I finanziamenti allo Sato islamico non provengono comunque dai governi del Golfo, ma da privati che spesso usano legislazioni piuttosto morbide per far arrivare il denaro in Siria. In generale, non stupisce più di tanto che questi Paesi mantengano una certa flessibilità riguardo il finanziamento di gruppi esterni, anche se terroristi: nelle logiche della politica mediorientale degli ultimi trent’anni i primi nemici dei Paesi sunniti sono stati Iran e Siria, nazioni governate da sciiti.

Bisogna quindi combatterli su quattro fronti: militarmente; dove sono presenti sul territorio e bloccare la loro avanzata in altri Paesi; strategicamente, ovvero rafforzare l’intelligence per intensificare il lavoro di analisi e contrasto alla rete e intercettare i reclutatori e i terroristi e finirla una volta per tutte con i continui tagli alla spesa per la difesa e la sicurezza delle Nazioni, che poi significa la sicurezza di tutti noi e dei nostri figli, intensificare i rapporti tra le varie Agenzie dei Paesi europei e non, superando l’egoismo provinciale che ancora soffoca le potenzialità di usufruire di queste strutture di eccellenze; economicamente, colpendoli, appunto, nella loro vera forza: il denaro; culturalmente, ovvero iniziare all’interno dei nostri Paesi a saper coniugare accoglienza, integrazione ma anche il rispetto delle leggi e dei costumi dei Paesi ospitanti, finirla con il buonismo da accatto, con i media che a volte, purtroppo, divengono complici dello sguaiato mondo della disinformazione becera e pericolosa, con la scuola piegata su se stessa, con la famiglia intenta ad accarezzare quotidianamente l’egoismo più devastante per una società civile in affanno in tutto il mondo e non solo in precisi e limitati confini geografici.

Insomma, com’è ormai chiaro, se consideriamo Daesh-Isis “Stato” si può dire che sia uno Stato povero, con un budget che si avvicina a quello dell’Afghanistan o della Repubblica Democratica del Congo, ma se lo consideriamo invece per quello che è, una organizzazione terroristica, risulta essere in salute e con un’economia forte e molto diversificata. È in gioco il nostro futuro e delle generazioni a venire dopo di noi. O si blocca con tutti i mezzi questa deriva terroristica ammantata da guerra di religione pur non essendola, oppure i nostri popoli saranno travolti dalla paura e dal terrore continuo, costante, invasivo, è sarà quindi la vittoria del terrore che, come affermava Oscar Wilde, “è come se una mano di ghiaccio si posasse sul cuore. È come se il cuore palpitasse, fino a schiantarsi, in un vuoto abisso”.

(*) Dirigente d’azienda e docente a contratto in Scienze criminologiche per la difesa e la sicurezza

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:31