L’inquieto cielo sulla città di Ankara

Le recenti dimissioni del premier turco Ahmet Davutoğlu, conseguenza dei perduranti contrasti con il presidente Recep Tayyip Erdoğan, vanno lette in un’ottica più ampia e meno riduttiva di quella che tende, in questi giorni, a ricondurre l’accaduto ad un mero contrasto di personalità e, soprattutto, alla tendenza di quello che i media chiamano “il Sultano” a concentrare sempre più il potere nella presidenza, di fatto esautorando il suo primo ministro. In realtà quello cui abbiamo assistito non è altro che l’ultimo episodio di uno scontro in atto all’interno dell’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di ispirazione islamica e tendenza conservatrice, che egemonizza la politica di Ankara sin dal 2002. E che, presumibilmente, continuerà a lungo a detenere le redini del potere, vista la sostanziale evanescenza dell’opposizione democratica e kemalista.

Pur affondando le sue radici nell’islamismo politico, l’Akp presentava fin dalle origini connotati che lo differenziavano radicalmente da consimili movimenti presenti nel limitrofo mondo arabo medio-orientale, per lo più espressione dei Fratelli Musulmani. L’Islam turco infatti presenta caratteri tutti particolari, dovuti sia alla storia dell’Impero Ottomano, sia ad una visione della tradizione fecondata da elementi provenienti dalle culture sciamaniche centro-asiatiche, e quindi tendenzialmente sincretica e “tollerante”. Come dimostra, per altro, il fatto che la “scuola giuridica islamica” prevalente in Turchia ed in tutto l’universo turcofono, è quella Hanafita, lontanissima come visione della fede e della legge dalle interpretazioni radicali dei salafiti e dei wahabiti che nutrono il brodo di cultura dell’estremismo e del jihadismo nel mondo arabo. Inoltre, in questi quattordici anni di governo, l’Akp ha subito una complessa metamorfosi interna, divenendo una sorta di “partito balena” capace di contenere al suo interno blocchi sociali ed interessi sovente contrastanti fra loro, ed in molti casi lontani dal ceppo originario dell’islamismo politico. Nuova borghesia imprenditoriale emergente, ceti produttivi rampanti delle grandi città - Istanbul, Ankara, Smirne - e ceti agricoli dell’Anatolia interna, fortemente conservatori. Insomma, una sorta di “Democrazia Cristiana in salsa islamica” con una marcata tendenza conservatrice ed una buona spolverata di patriottismo nazionalistico, sentimento molto diffuso fra i turchi.

Tuttavia, proprio questa complessità che ha permesso all’Akp di trionfare in tutte le elezioni – presidenziali, politiche ed amministrative – per quattordici anni, è da tempo causa di inevitabili conflitti interni. Conflitti che, naturalmente, vedono al centro la figura di Erdogan, leader carismatico e vero e proprio collettore di voti popolari, ma la cui politica ha portato alla graduale rottura con altre figure di spicco del partito. In primo luogo con Fethullah Gülen, il potente tycoon dei media, che risiede negli Stati Uniti, e che, dopo aver appoggiato l’ascesa dell’Akp, è oggi il più strenuo oppositore di Erdogan. E il braccio di ferro fra il presidente e la stampa, con il commissariamento e la chiusura di molti giornali, andrebbe appunto letto in questa luce. Poi a rompere è stato il predecessore del Sultano, l’ex presidente Abdullah Gül, a lungo l’uomo del dialogo sia con l’Unione europea, sia con Mosca, seguito da molti altri ex ministri. Oggi è la volta di Davutoğlu, prima ancora che un politico, il teorico della strategia a 360 gradi di Ankara sulla scena internazionale. Sullo sfondo di questa rottura, contrasti nella gestione del “dossier migranti” e del problema curdo, ma anche dei dubbi sull’evoluzione in senso presidenziale che Erdogan vorrebbe imprimere alla Costituzione.

Mentre nell’Akp si sta giocando questa partita, alla finestra restano i “poteri forti” – Forze armate, magistratura, grandi industriali – quelli che Atatürk chiamava “lo Stato profondo”. Poteri che, sino ad oggi, hanno rispettato i risultati elettorali dell’Akp, rimanendo sotto traccia, ma che di fronte ai venti di crisi che soffiano su Ankara potrebbero tornare a far sentire la loro voce.

 

(*) Senior fellow del think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio”

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05