L’ombra del Califfo lungo la Via della Seta

Le milizie del Califfo sono ormai ridotte alla ritirata in Siria, provate dalla pressione delle forze di una coalizione internazionale che sembra, finalmente, aver trovato una qualche unità d’azione, e, contemporaneamente, anche in Iraq, schiacciate tra l’esercito di Baghdad, appoggiato dalle forze sciite – inquadrate dai reparti speciali Qods di Teheran – e dai peshmerga curdi di Barzani, appoggiati da un paio di migliaia di “consiglieri militari” turchi. Ed anche in Libia le cose non sembrano andare meglio per l’Is, che rischia di perdere il controllo della enclave di Sirte per l’offensiva lanciata dalle milizie di Misurata – le più forti fra quelle che sono espressione del complesso sistema tribale delle kabile libiche – che sembrano, al momento, decise ad appoggiare il nuovo governo di Fayez al-Sarraj.

Una situazione che prospetta concretamente la possibilità che, a breve, il sogno di uno Stato islamico incardinato su una precisa realtà territoriale si infranga in mille pezzi. Tuttavia questo non deve regalare la facile illusione che la minaccia del jihadismo dell’Is sia prossima al tramonto. Al contrario vi sono molti segnali che le forze del Califfo, sconfitte nel cuore del Medio Oriente e in palese crisi anche in Libia, stiano cercando di rilanciare le loro azioni trasferendo l’offensiva in altri scenari. Due in particolare: il Caucaso russo e l’Asia Centrale. Infatti proprio in queste due regioni stanno riconfluendo migliaia di foreign fighters in ritirata dallo scenario siro-irakeno... nelle milizie di al-Baghdadi infatti combattono da tempo molti jihadisti di origine caucasica – ceceni, ingusci, daghestani – e centro-asiatica, in particolare uzbeki e uiguri dello Xinjiang cinese. Guerriglieri esperti, forgiatisi nelle fiamme dei conflitti irakeno e siriano, dove hanno anche assolto a funzioni di comando fra le truppe dell’Is. Ora sembra che molti di questi stiano tornando nelle loro terre di origine, andando ad innervare con la loro esperienza i locali movimenti di ispirazione islamista. Movimenti, in molti casi, sorti come espressione di forze indipendentiste, come in Cecenia – già provata da lunghi anni di conflitto con Mosca – in Inguscezia ed in Dagestan, e nello stesso Xinjiang ben presto, però, contaminate dall’ideologia dell’islamismo radicale grazie alla predicazione, accompagnata, dagli aiuti economici, di imam salafiti e wahabiti provenienti dai paesi arabi del Golfo.

In altri casi, invece, si tratta di movimenti radicali con lunga esperienza di guerriglia, come le milizie dell’Imu, il Movimento Islamico dell’Uzbekistan che opera da molti anni un po’ in tutta l’Asia Centrale, e che è legato a doppio filo con i Talebani dell’Afghanistan. Talebani che, certo, sono in maggioranza di etnia pashtun, ma che annoverano fra le loro fila anche una “Brigata uzbeka”, considerata tra le più feroci e combattive. E proprio l’esempio dei Talebani di etnia uzbeka dovrebbe aiutarci a comprendere i rischi rappresentati da quella che, a tutta prima, appare come una frammentazione, o se vogliamo una polverizzazione delle forze del Califfato. Infatti, gli uzbeki fedeli al radicalismo islamico che si sono formati nell’annoso conflitto afghano, hanno, nel tempo, notevolmente contribuito alla nascita e all’organizzazione militare dell’Imu, il cui obiettivo dichiarato è giungere a creare un “Califfato centro-asiatico”, ispirato all’ideologia islamista di derivazione salafita e wahabita, e al tempo stesso fondato sul “mito” della grandezza di Samarcanda ai tempi di Tamerlano. I segnali di questo spostamento dell’azione dei jihadisti in nuovi scenari operativi sono sempre più frequenti. E preoccupanti. Attacchi di gruppi terroristi uiguri nello Xinjiang. Operazioni di guerriglia di milizie jihadiste nel sud del Kazakhstan, paese sino ad oggi restato fortunatamente indenne dal terrorismo islamista. E un certo fermento che sembra attraversare tutta l’Asia Centrale e il Caucaso. Regioni, per altro, cruciali per il delicato sistema degli equilibri eurasiatici. Attraverso queste infatti passano e si diramano le reti multimediali di trasporto – ferroviarie, stradali, gasdotti ed oleodotti – e di comunicazione che stanno costituendo il tessuto della nuova Via della Seta, il grande canale che mette in contatto l’Europa, e in particolare il Mediterraneo, con il colosso industriale ed economico cinese. In sostanza, l’arteria vitale terrestre dell’economia mondiale. Un’arteria che il Califfo sta cercando di tagliare.

 

(*) Think tank di geopolitica “Il Nodo di Gordio”

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:01