Trump o Clinton, una prima per gli ebrei

Negli Usa, gli ebrei prendono parte da sempre al processo politico. L’affluenza alle urne dell’elettorato ebraico è di gran lunga superiore alla media nazionale, e questo è rappresentativo dell’entusiasmo che provano per la democrazia di quel Paese. Ciò è spiegato probabilmente dal fatto che la gran parte degli ebrei americani provenivano da Paesi in cui la libertà era nel migliore dei casi un bene raro - e nel peggiore, inesistente - e gli ebrei ne pagavano spesso le conseguenze.

Ma per gli ebrei, la domanda è anche fino a che punto il processo politico americano li abbia inclusi; domanda che non nasce oggi nel 2016 grazie alla candidatura a Presidente degli Usa del senatore Bernie Sanders, primo ebreo ad arrivare a vincere la primarie in uno stato degli Usa.

Nei primi anni della nazione, ci si domandava già se gli ebrei potessero aspettarsi protezione ed uguaglianza dei diritti. Fortunatamente la risposta da parte dei primi due Presidenti, George Washington e John Adams, fu affermativa.

I primi membri del Congresso di religione ebraica furono eletti nel 1845, ma fu solo nel 1906 che un Presidente elesse un ebreo a membro del Gabinetto. E dieci anni dopo, esattamente un secolo fa, la Corte Supreme vide il suo primo membro di religione ebraica.

Da allora, non è successo nulla di particolarmente rilevante riguardo al fatto che un ebreo venga eletto al Congresso, o a membro del Gabinetto, o alla Corte Suprema. E gli ebrei che si dedicavano a prender nota delle elezioni di altri ebrei, e di tenere il conteggio dei successi ottenuti, persero pian piano l’abitudine, visto che erano ormai divenute occorrenze non più eccezionali.

Chiaramente, il ruolo che non è stato mai assunto da un ebreo, è quello di trovarsi sulla poltrona di Presidente all’Ufficio Ovale. Se ne è parlato quest’anno, vista la candidatura di Sanders, ebreo di Brooklyn; eppure la questione della sua identità non è stata sollevata praticamente mai, né dai suoi supporter e neppure all’interno della comunità ebraica.

Per quanto riguarda il primo punto, concentrare l’attenzione sul candidato in sé e non sulla sua identità etnica o religiosa è un tratto positivo della maturità dell’elettorato statunitense. Sul secondo punto pesano, a mio parere, due fattori: Sanders stesso non ha posto la questione della sua identità ebraica, e d’altronde anche se gli ebrei avessero mai votato in base all’appartenenza etnica, non lo fanno da un bel pezzo. In altre parole, per gli ebrei la questione non è se Sanders sia ebreo o meno, ma se la sua politica meriti il loro supporto in quanto elettori americani.

In realtà, il tema si impose in maniera veramente importante durante la corsa alla Casa Bianca del 2000, quando l’allora vicepresidente Al Gore, Democratico, dovette affrontare la coppia Bush-Cheney. I primi sondaggi davano vincenti i Repubblicani. Quando gli strateghi Democratici si riunirono per decidere in che modo agire per recuperare il terreno perduto decisero per qualche strano motivo che la cosa giusta da fare fosse affiancare a Gore un senatore del Connecticut, ebreo osservante, che evitava i panini al prosciutto e che non guidava il sabato.

E come se non bastasse, sua moglie non si chiamava Michelle, Barbara, Laura o Nancy, bensì Hadassah. Sotto molti aspetti, fu quello il momento importante per molti ebrei americani. Se il Paese avesse accettato quella coppia, allora tutto sarebbe stato possibile. E il Paese lo fece. Il voto popolare fu per Gore-Lieberman, e anche se finirono per venire sconfitti alle elezioni, il momento della svolta fu allora.

Nelle elezioni di quest’anno, invece, è venuta fuori un’altra questione, quella della crescente complessità dell’identità ebraica.

Prendiamo ad esempio i candidati dei due partiti principali. Che sia Hillary Clinton o Donald Trump il prossimo ad occupare la Casa Bianca, sarà la prima volta che un Presidente degli Usa avrà familiari ebrei. Nessuno dei due candidati è ebreo, ma entrambi hanno figlie che hanno sposato ebrei.

Chelsea, la figlia dei Clinton, ha sposato Marc Mezvinsky nel 2010. Non è dato sapere in quale fede stiano crescendo i due nipotini, ma al matrimonio erano presenti elementi sia del cristianesimo che dell’ebraismo. Dal suo canto, Trump è fiero di parlare della di sua figlia Ivanka convertita all’ebraismo, e dei suoi tre nipoti ebrei. Jared Kushner, il suo genero ebreo, è diventato uno dei suoi consiglieri più intimi.

Quale sarà la risposta dell’elettorato ebraico-americano ai legami di Donald Trump con l’ebraismo ed alle sue affermazioni a supporto di Israele – e le questioni riguardo il supporto che sta ricevendo dall’estrema destra e da gruppi fautori della supremazia della razza bianca ed antisemiti – è ancora da vedere. Ma se il passato è indicativo del futuro, si troveranno ebrei sia tra i suoi supporter più entusiasti che tra i suoi più convinti detrattori.

In tempi moderni, nessun candidato Repubblicano è arrivato mai ad ottenere più del 40 per cento dei voti dell’elettorato ebraico, primato ottenuto da Ronald Reagan nel 1980. Nel 1992, George H.W. Bush ne ottenne appena l’undici per cento. È questa l’estensione numerica del voto ebraico di cui deve tener conto Donald Trump. Ma con ancora quattro mesi di turbolenta campagna davanti a noi, qualunque previsione è azzardata. Benvenuti alle presidenziali americane ed agli ebrei nel 2016!

 

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee, organizzazione non schierata politicamente

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:05