L’islamofobia islamica   è una minaccia per noi

A marzo di quest’anno c’è stato un omicidio che ha scosso la Gran Bretagna. Poco prima di Pasqua, un negoziante 40enne di Glasgow, Asad Shah (nella foto), è morto dopo essere stato ripetutamente accoltellato davanti al suo negozio. Si è subito parlato di un’aggressione di matrice religiosa. Ma la tipologia dell’attentato ha sorpreso la maggior parte dei cittadini del Regno Unito.

Nel Paese è stata prestata così tanta attenzione all’idea di “islamofobia” che molta gente – tra cui alcuni gruppi musulmani – ha pensato subito che Asad Shah sia stato vittima di un omicidio “islamofobico”. Si è però scoperto che l’uomo che è stato arrestato dalla polizia – e che questa settimana è stato condannato a 27 anni di prigione per l’uccisione di Shah – è anche musulmano.

Shah era un musulmano ahmadi, ossia apparteneva a una setta che promuove una visione pacifica dell’Islam e che viene dichiarata “eretica” da molti musulmani. Tanveer Ahmed, l’assassino di Asad Shah, è un musulmano sunnita che si è recato a Glasgow per uccidere il negoziante pakistano perché credeva che lui avesse “mancato di rispetto al profeta Maometto”. A questo punto, le comode narrazioni della Gran Bretagna moderna cominciano a sfilacciarsi.

Mentre tutti avrebbero saputo cosa fare, cosa dire e da dove iniziare a cercare i legami, se un’atrocità del genere fosse stata commessa da un non musulmano contro un musulmano, i politici e altri non sapevano cosa fare quando si è scoperto che l’autore del crimine era un musulmano. Se, ad esempio, l’omicidio fosse stato commesso da un non musulmano, i leader politici come la premier scozzese Nicola Sturgeon avrebbero subito cercato collegamenti con chiunque avesse incoraggiato o approvato un atto del genere. Ma sotto la superficie di questo omicidio giace un intero iceberg che la Sturgeon e altri non si sono dimostrati interessati a scandagliare.

In genere, dopo gli attacchi terroristici, è tradizione che la Sturgeon e altri politici scozzesi si rechino nelle moschee locali per dire che naturalmente l’attentato non ha nulla a che fare con l’Islam e per rassicurare la comunità musulmana scozzese. La moschea più visitata è quella centrale di Glasgow, la più grande della Scozia. La premier ha incontrato i suoi leader molte volte, anche dopo gli attacchi di Parigi dello scorso novembre. Tra queste autorità c’è l’imam Maulana Habib Ur Rehman. Solo un mese prima dell’uccisione di Shah, questo imam di Glasgow si era detto turbato per l’impiccagione in Pakistan di Mumtaz Qadri, l’uomo che ha ucciso Salman Taseer, il governatore del Punjab, per la sua opposizione alle leggi sulla blasfemia. Reagendo all’impiccagione dell’assassino di Taseer, l’imam Rehman ha detto, tra l’altro: “Non posso nascondere il mio dolore di oggi. Un vero musulmano è stato punito per aver fatto quello (sic!) che la volontà collettiva della nazione non è riuscita a compiere”. Questa affermazione è una giustificazione abbastanza chiara delle azioni dell’assassino di Taseer ed è come se fosse stata pronunciata a difesa di altri autori di azioni simili compiute contro chi è accusato di non accettare una particolare interpretazione dell’Islam.

Ovviamente, se ad uccidere Asad Shah non fosse stato un musulmano, avremmo assistito a uno sforzo congiunto da parte dei media e dei rappresentanti politici per scoprire quali fossero i legami e le motivazioni dell’assassino. In particolare, essi avrebbero voluto sapere se ci fosse stato qualcuno – soprattutto qualche autorità – che avesse mai invocato l’uccisione di negozianti musulmani. Quando però un musulmano britannico uccide un altro musulmano britannico per presunta “apostasia” e le autorità religiose locali elogiano o piangono chi uccide qualcuno accusato di “apostasia”, i media e la classe politica non si preoccupano di agitarsi. Parlano di cose “fuori contesto” o avvertono di non “generalizzare”, ammoniscono di non essere “islamofobici” oppure dicono altre frasi sciocche e assurde.

Quello che è accaduto questa settimana in tribunale, quando Tanveer Ahmed è stato riconosciuto colpevole e condannato per l’omicidio di Asad Shah, è ancor più eloquente. Dopo che il giudice ha letto la sentenza, l’imputato ha alzato il pugno e ha gridato in arabo: “C’è solo un profeta”. I suoi sostenitori, che erano la metà delle persone presenti in aula, si sono uniti al suo grido. Tutto questo fa capire perché la famiglia di Shah fosse troppo terrorizzata per essere presente durante il processo e si prepari a lasciare la Scozia. Poi, fuori dal tribunale, un giornalista della Lbc Radio ha intervistato alcuni familiari dell’assassino. In questo video, che vale la pena visionare, si vede il cronista chiedere ai familiari del killer: “Asah Shah meritava di morire?”. Ma loro si rifiutano di rilasciare commenti. Quando è stato chiesto a un altro sostenitore se a suo avviso fosse stato “rispettoso” da parte del killer recitare quella parte dal banco degli imputati, l’uomo è diventato minaccioso e ha detto: “Sì. Lui rispetta il suo profeta. Lui dice: ‘Io amo il mio profeta’. Che c’è di male in questo?” Alla domanda se il verdetto sia stato giusto, l’uomo ha risposto: “No”. Ma non ha poi voluto rilasciare alcun commento, quando il giornalista gli ha chiesto per quale motivo non lo fosse.

Certamente è un bene che il sistema giudiziario penale abbia fatto il proprio lavoro e anche rapidamente. L’assassino di Asad Shah è stato assicurato alla giustizia e gli è stata inflitta una pena debitamente lunga. Ma questo caso avrebbe dovuto offrire ai politici, ai media e alla società intera l’opportunità di riuscire a capire che questo tipo di fanatismo costituisce una minaccia per tutti noi e prendere coscienza di quanto esso sia in realtà diffuso. Invece, pur intravedendo per un attimo quanto il problema sia profondo, sembra che il Regno Unito abbia deciso ancora una volta di fare finta di niente e distogliere lo sguardo, per paura di quello che potrebbe altrimenti scoprire.

(*) Gatestone Institute

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:02