Bratislava: ovvero   l’Europa a pezzi

L’immagine che sintetizza il vertice di Bratislava è, oggi come oggi, quella della conferenza stampa di Angela Merkel e François Hollande, e di Matteo Renzi che si presenta alla stampa da solo. Immagine icastica di una frattura, non la prima, fra i tre Paesi che diedero vita, con i Trattati di Roma, al primo embrione dell’Unione europea. Un’immagine che però rischia di lasciare in ombra altri aspetti della crisi della Ue emersi, in modo dirompente, proprio a Bratislava. In particolare il chiaro segnale che i Paesi dell’Europa centro-orientale ormai hanno deciso di ballare da soli.

La Polonia da un lato, l’Ungheria dall’altro – subito seguite dagli altri Paesi dell’area – hanno alzato barriere insormontabili ad ogni, pur minima, proposta di redistribuzione delle masse di migranti che, dalla Penisola Anatolica, premono in direzione dei Balcani e dell’Europa centrale. Una presa di posizione che ha immediatamente reso evidente come gli ex satelliti dell’Urss non sono disposti a pagare alcun conto per i molti aiuti e gli enormi vantaggi che hanno, sino ad oggi, derivato dall’ingresso nella Ue; vantaggi resi ancor più notevoli dal non essere entrati, però, nell’area dell’Euro e, di conseguenza, non aver dovuto subire i diktat economici di Bruxelles. Per altro, da molti di questi il fatidico “ingresso in Europa” è stato vissuto essenzialmente come un passaggio per entrare a far parte della Nato, ovvero per porsi sotto l’ombrello protettivo di Washington. Cosa che, naturalmente, rappresenta una ferita sanguinosa per il Cremlino, da dove Vladimir Putin più di una volta ha accusato l’Unione di essere solo lo strumento della politica espansionista degli Usa.

Comunque, la presa di posizione dei Paesi dell’Europa orientale non può essere ricondotta semplicisticamente agli attuali governi di Varsavia e Budapest, caratterizzati da un forte nazionalismo; piuttosto appare evidente che riflette il senso complessivo di disgregazione della Ue che si sta sempre più diffondendo dopo la Brexit. E che, però, non alla sola fuoriuscita di Londra va imputato. Anzi, proprio lo smarcarsi della Gran Bretagna ha messo in evidenza l’incapacità della Germania di assumere davvero una leadership continentale. Una leadership capace di guardare oltre i propri interessi di bottega; una leadership in grado di dare all’Unione europea uno straccio di politica estera comune. La Merkel ha, invece, ulteriormente confermato la propria miopia, anzi cecità sul piano strategico generale. Tutta presa dai problemi interni – il rischio di sconfitta elettorale della Cdu, dissanguata dall’avanzata di una nuova destra populista – ha ancora una volta subordinato a questi le scelte strategiche in politica estera, come già aveva fatto al primo affacciarsi della crisi greca, resa ingovernabile proprio dalle sue esitazioni a dal suo pensare esclusivamente a salvare le banche tedesche pesantemente esposte con Atene. Ed alla cecità della Cancelliera di Berlino si è aggiunta, ancora una volta, la pochezza della leadership francese, con un Hollande incapace da un lato di governare la crisi economica interna, dall’altro di sopire le velleità di grandeur che già ci sono costate i disastri della Libia e, in buona parte, anche della Siria. Dove le responsabilità di Parigi nel fomentare l’inizio della rivolta contro Assad, e quindi della guerra civile, vengono un po’ troppo spesso dimenticate.

A questo si deve aggiungere, poi, la crisi dei rapporti fra Berlino e Washington, esplosa mediaticamente con la “multa” della Ue ad Apple e, poi, con la ritorsione statunitense contro Deutsche Bank, che covava da tempo sotto traccia. Una tensione latente che ha sia ragioni economiche – il fallimento del TTIP fortemente promosso da Washington e di fatto boicottato da Berlino – sia più squisitamente politiche. Con la Germania che, dopo aver appoggiato attraverso polacchi e lituani la frattura fra Kiev e Mosca ed aver sostenuto, anzi di fatto imposto agli altri partner Ue le sanzioni contro la Russia in campi come il commercio dell’agroalimentare – che sta provocando gravi perdite alle nostre economie mediterranee – continua tuttavia a cooperare con la Russia per quanto riguarda le importazioni di gas e petrolio. Al punto di progettare il raddoppio del North Stream, la pipeline che veicola il gas russo in territorio tedesco. Una politica doppia che ha irritato non poco la Casa Bianca di un Barack Obama che, a fine mandato, sembra aver deciso di presentare il conto ai tedeschi.

Peraltro, gli esiti di Bratislava sembrano completamente vanificare l’unica, o quasi, mossa sensata portata avanti, in questi ultimi tempi, da Berlino sul piano della politica estera: l’accordo con la Turchia. Un accordo che senza il consenso dei vari partner dell’Europa centro-orientale sulla redistribuzione dei flussi di migranti appare oggi sempre più impraticabile. Mettendo a grave rischio tutti i già fragili equilibri dei Balcani. Infatti, se Ankara verrà lasciata ancora una volta sola a fronteggiare il problema di oltre tre milioni di migranti, è facile prevedere che deciderà di non fare più da scudo all’Europa, spalancando le porte dei Balcani a quella che rischia di configurarsi come una vera e propria invasione epocale. Ne verrebbe travolta la Grecia – già oggi in gravissime difficoltà – Serbia, Albania, Kosovo, Bosnia, Montenegro, Bulgaria, Macedonia, Slovenia e Croazia verrebbero esposte ad una pressione difficilmente sostenibile. Con l’inevitabile portato di riaccendere i focolai di tensione sempre latenti nella regione. Scatenando conflitti che potrebbero minacciare gli equilibri dell’intero Continente.

(*) Senior Fellow deIl Nodo di Gordio

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:09