Iran, il massacro dei prigionieri politici

Il progetto di eliminare i prigionieri politici in Iran ebbe inizio nella metà degli anni Ottanta. Il regime dittatoriale iraniano per la sua natura teocratica non ammette la dissidenza. Perfino i prigionieri, che sotto atroci torture ritrattavano la loro posizione, non avevano salva la vita. Nell’estate 88, alla fine della guerra Iran-Iraq, il massacro nelle carceri iraniane raggiunse un picco inusitato. In seguito ad una fatwa di Khomeini si decise di eliminare tutti i prigionieri politici che non abiuravano il loro passato. Si formò la commissione dell’“amnistia”, chiamata subito dai prigionieri politici “commissione della morte”. Quella di Teheran era preseduta dal mullà Hossein Ali Naìeri, capo dei giudici religiosi di Evin. Ne facevano parte Mostafa Pour-Mohammadi, allora rappresentante del ministero delle Informazioni e attuale ministro della Giustizia del governo Rouhani, e Ebrahim Raisi all’epoca sostituto procuratore del tribunale islamico di Teheran e principale candidato di Khamenei nelle elezioni presidenziali di maggio 2017.

Nel massacro dell’88 l’intenzione non era solo dare un colpo decisivo alla questione dei prigionieri politici ma soprattutto diffondere il terrore nella società in modo da paralizzarla ed operare una metamorfosi in ogni strato sociale, considerata la disastrosa situazione del paese dopo otto anni di guerra che solo Khomeini volle continuare. L’arrivo della fatwa di Khomeini per l’eliminazione dei prigionieri politici non fu un fulmine a ciel sereno. Nelle carceri da molti mesi i prigionieri che resistevano venivano minacciati della loro imminente esecuzione a morte. Nei primi giorni dell’88 cominciarono a selezionare e suddividere i prigionieri in base agli anni di condanna e bloccarono la liberazione di chi aveva scontato la pena. Più volte ai prigionieri veniva annunciato che era giunto il momento della sanguinosa resa dei conti.

Nella primavera dell’88 si intensificarono gli incontri delle autorità di sicurezza del regime con Khomeini. Nel mese di maggio le selezioni proseguirono e il carcere di Evin si preparava a diventare un vero e proprio mattatoio, se mai non lo era già. Nella prima settimana di luglio dell’88 i prigionieri, convocati per l’ennesimo interrogatorio, ebbero l’avvertimento e la certezza che sarebbe giunto il massacro finale. Le ripetute sconfitte nella guerra con l’Iraq, la crisi socio-economica asfissiante e la malattia di Khomeini spingevano il regime a eliminare i prigionieri politici che resistevano e la loro eliminazione, oltre a disciogliere la problematica questione, sarebbe servita ad imbrigliare tutta la società iraniana col terrore. Il 24 luglio il primo gruppo di prigionieri venne portato nelle celle di isolamento. Il giorno dopo i prigionieri dovettero compilare i moduli che sarebbero serviti alla loro condanna. Il pomeriggio del 27 luglio la Commissione della morte iniziò i suoi “lavori” ad Evin e dal giorno dopo il primo gruppo di Mojahedin del popolo venne portato al patibolo. La macchina della morte arrivò al carcere di Gouhar-dasht il 30 luglio e successivamente raggiunse tutte le carceri del paese, proseguendo nelle esecuzioni sino al mese di settembre.

Il regime da una parte si fece vanto della sua spietatezza per incutere paura, dall’altra dovette considerare la sopportabilità sociale dell’evento.  Si stima che in quella tragica estate dell’88 ci furono 33mila e 700 uccisioni,  di cui circa l’85% aderenti ai Mojahedin del popolo e il restante ad altri gruppi politici. A conferma del numero elevato c’è una lettera dell’ayatollah Montazeri, datata 31 luglio, 4 giorni dopo l’inizio del massacro, dove si parla di impiccagioni di migliaia di Mojahedin del popolo. In quella lettera Montazeri, allora successore designato di Khomeini, ammoniva che un numero così alto di impiccagioni avrebbe aumentato il fascino verso l’organizzazione dei Mojahedin e sarebbe stato controproducente. In quella lettera fatale, che gli costò il posto, Montazeri chiedeva a Khomeini che “almeno la sentenza di morte fosse emessa all’unanimità dalla Commissione e non soltanto a maggioranza e che venissero risparmiate le donne o perlomeno quelle con figli piccoli”. Recentemente è stato rivelato un documento audio del 15 agosto dell’88  in cui l’ayatollah Montazeri cerca, senza successo, di dissuadere i membri della Commissione della morte, tra cui Pour Mohammadi e Raisi, dalla loro macabra missione.

Ciò che accadde nell’estate dell’88 nelle carceri iraniane è un crimine contro l’umanità e deve essere considerata seriamente la possibilità di processare i responsabili che devono rispondere dei crimini commessi di fronte alla giustizia

Aggiornato il 27 luglio 2017 alle ore 10:19