Scontri di Gaza: sei tristi insegnamenti

Anche quando abbiamo buoni motivi per prevedere qualcosa che sta per accadere, l’esperienza dell’evento può lasciarci sconvolti.

Le intenzioni di Hamas riguardo agli scontri sul confine con Gaza del 14 maggio scorso erano evidenti e dichiarate apertamente: l’intenzione della “Marcia del Ritorno” era quella di violare il confine, e possibilmente arrivare alla conquista e alla distruzione dei kibbutz della zona e della città di Sderot. Di conseguenza, non si è trattato di una “protesta”, ma di un atto di guerra, che se fosse andato in porto, sarebbe stato un duplice crimine di guerra: un attacco su vasta scala ad obiettivi civili, e l’utilizzo di innocenti come scudo. Entrambi proibiti dallo Statuto di Roma.

Pur avendole previste, sia Israele che il resto del mondo si sono trovati impreparati davanti alle scene cruente e alla rapida diffusione della falsa narrativa di Hamas, in cui si afferma che si è trattato di un “massacro” di civili innocenti e indifesi da parte degli Israeliani assetati di sangue. Sembra a volte che le dispute verbali continueranno all’infinito, come accade nelle cosiddette “spirali di violenza” (termine pericoloso, in quanto presuppone che tutti coloro che ne sono coinvolti abbiano colpe in egual misura e che comunque non ci sia altra scelta). Possiamo però trarre degli importanti insegnamenti sia dagli eventi in sé che dalle dispute, che tra accuse ed interpretazioni, li hanno seguiti. Insegnamenti tristi che possono farci riflettere.

La prima lezione è che i leader di Hamas erano ben coscienti di quello che stavano facendo quando hanno optato per queste tattiche estreme. Avevano poca scelta su come scatenare violenze. Gli attacchi missilistici del 2012 e del 2014, in gran parte rese inefficaci dall’Iron Dome e dalle offensive dell’Idf, sono costati cari. Oggi i tunnel di penetrazione di Hamas e della Jihad Islamica palestinese stanno cadendo ad uno ad uno, grazie allo sviluppo israeliano di nuove capacità di rilevamento.

Da qui la scelta di imponenti “marce” al confine, convinti - giustamente - che sarebbero sfociate in scontri violenti. Per un movimento desideroso di dimostrare che possiede ancora le credenziali “jihadiste”, al contrario dei “venduti” di Fatah e dell’Autorità Palestinese (Ap), la perdita di oltre 100 vite umane durante queste settimane di scontri è una “vittoria” .

Allo stesso tempo, la reputazione morale di Israele ha subito gravi danni e comincia anche ad essere messa in dubbio la capacità del Paese di sostenere una “gestione del conflitto” con i palestinesi. Almeno per ora, questo importante aspetto della politica israeliana ne è uscito indebolito, nonostante alcuni alti ufficiali di Ramallah abbiano recentemente ammesso, anche pubblicamente, che l’Idf riesce abilmente a scovare i pochi violenti tra la folla generale, e che i Paesi Arabi sarebbero quindi liberi di avvicinarsi ad Israele non dovendo scontrarsi quotidianamente con le immagini delle sofferenze palestinesi.

La seconda lezione è che anche l’Idf sa bene quello che fa, ma la professionalità delle forze armate sul campo non è stata sufficiente ad evitare le gravi conseguenze sul piano diplomatico. Molti osservatori israeliani, dai punti di vista certamente non influenzati da simpatie per il governo in carica, hanno comunque riferito che la condotta dell’Idf durante gli scontri, anche quelli più gravi, è stata esemplare. In linea con il codice di condotta, non è stato sparato un solo colpo senza che fosse rispettata la procedura autorizzativa e senza che ci fosse un motivo visibile relativo ad una diretta minaccia di sfondamento del confine.

Non è stata una risposta indiscriminata. Hamas e la Jihad Islamica Palestinese hanno dichiarato che ben 53 su un totale di 62 morti erano loro militanti (malgrado neanche uno portasse un segno distintivo, figuriamoci un’uniforme). Questo vuol dire che probabilmente il comando locale dell’IDF al confine con Gaza è diventato molto sofisticato nella politica di reazione a determinati schemi di comportamento che costituiscono un immediato pericolo. All’interno di questa strategia, non si toglie una vita immotivatamente; al contrario, si evitano vittime. Se fosse andata come era nelle intenzioni di Hamas, centinaia di persone avrebbero sconfinato, ed a quel punto sarebbero state inevitabili perdite molto più numerose. Si tratta della complessa e sottile “tartaruga” della verità che viene facilmente superata dalla “lepre” delle bugie, come abbiamo già avuto occasione di vedere a Jenin nel 2002. Ma le tartarughe hanno il loro modo di recuperare.

La terza lezione - e purtroppo neanche questa è una sorpresa - è che la “lepre” fa veloce il giro del mondo, in quanto il vecchio saggio che imporrebbe di “evitare giudizi affrettati” è praticamente all’antitesi dell’etica attuale dei media. Giudizi affrettati, imprudenti e irrazionali sono arrivati anche dagli esperti (alcuni dei quali hanno avuto poi la decenza di ritrattare) e da alcuni governi europei (che invece non l’hanno avuta affatto). Di certo, affrettarsi a giudicare a distanza basandosi su immagini che possono anche essere autentiche, ma quasi sempre molto selettive e di parte, è un grave errore.

La quarta lezione è un antico insegnamento che ci tocca imparare ancora una volta: non c’è limite all’ipocrisia. In Europa e in altri luoghi, gli Stati che sono soliti condannare aspramente Israele e che hanno votato a favore della ridicola Commissione d’inchiesta nominata dal Consiglio Onu per i Diritti umani, sono gli stessi che esortano Israele a ritirarsi sui confini del 1967. Di fronte a tattiche simili e con gli agglomerati urbani di Gerusalemme e Tel Aviv letteralmente ad un tiro di sasso, il modo di difendere i confini è lasciato alla nostra immaginazione creativa. Dovremmo forse leggere lo statuto dell’Onu alle folle inferocite?

Nel frattempo, ci dobbiamo sorbire le prediche del regime di Erdogan, che ormai dà spiegazioni antisemite a qualunque cosa, dalla svalutazione della Lira Turca ai tentativi di assassinarlo. Che gran faccia tosta per un regime che ha brutalmente conquistato l’enclave curda di Afrin in Siria. La stessa faccia tosta della bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ostentata dal Kuwait, il Paese che nel 1991, in rappresaglia per il supporto dato all’Iraq di Saddam da Yasser Arafat espulse 400mila palestinesi, uomini, donne e bambini.

Assieme agli altri che in Occidente si sono uniti al coro di condanne, costoro mettono in realtà a rischio le vite dei palestinesi premiando Hamas per le sue tattiche. Fortunatamente sinora questo impatto è stato controbilanciato dall’efficacia delle azioni militari israeliane sul campo, dai moniti lanciati alla leadership di Hamas che hanno agito da deterrente e dai decisi (seppur tardivi) richiami egiziani ad Hamas di smettere di creare ulteriori escalation.

La quinta lezione viene dalla rinnovata consapevolezza che Mahmoud Abbas e Saeb Erekat, leader dell’Ap, si ostinano a credere di poter sfruttare la situazione a loro vantaggio appellandosi alle istituzioni internazionali. Potrebbe trattarsi di una scelta facile, visti i modelli di comportamento che abbiamo elencato, ma in questi momenti decisivi non sono certo azioni degne di un leader. E le recenti dichiarazioni di Abbas sulla Storia ebraica non hanno certo portato ad opzioni migliori per il suo popolo. (Sono stato presente ad un incontro di alto livello in cui un leader europeo ha detto “da qui partiamo direttamente per Ramallah, dove incontreremo il leader palestinese”, a cui la controparte israeliana ha risposto con la tagliente battuta: “non esageriamo”).

Alla sua età, e con problemi di salute, è molto difficile per Abbas allontanarsi dalla sicurezza di alcuni schemi di aspettative (i confini del 1967, Gerusalemme Est come capitale, il diritto al ritorno) che lo hanno portato in passato a rifiutare iniziative di pace, per trovare una sua collocazione nel nuovo paradigma concepito dalla squadra di Trump. Come persino il New York Times ha ammesso, non potrebbe esserci altro da fare se non attenerci alla gestione del conflitto in attesa che emerga una nuova leadership.

Sesto, dobbiamo accettare che lo “schermo diviso a metà” che abbiamo visto il 14 maggio scorso non è stata un’anomalia stridente: questa è Israele, a 70 anni dalla sua fondazione. Stiamo guardando quattro trasmissioni simultaneamente, tutte molto diverse tra loro.

La prima è un conflitto in corso, con fasi più o meno acute nel Nord ed a Gaza (e un livello molto più pacato di violenze in Cisgiordania), e una ben sviluppata capacità militare di risposta su tutti i fronti.

La seconda è un momento di straordinari successi diplomatici, come abbiamo visto recentemente con il trasferimento delle ambasciate degli Usa, del Guatemala e del Paraguay a Gerusalemme, con la decisione degli Usa riguardo al Pacg, con il quarto summit tripartito con Grecia e Cipro, e con le visite del Primo Ministro Netanyahu in India a gennaio e in Russia questo mese.

La terza riguarda le continue preoccupazioni sui casi di corruzione e la personalizzazione della politica, oltre alle tensioni tra mondo laico e Haredi, che potrebbe sfociare quest’anno in una crisi politica, indipendentemente dai problemi esterni. E la quarta è la dimostrazione della pura gioia di vivere delle migliaia di persone che hanno festeggiato la vittoria di Netta Barzilai all’Eurovision Song Contest: con la performance ispirata da #MeToo, riflette un altro aspetto di Israele, una Israele colorata, tollerante, libera da convenzioni tradizionali, avveduta culturalmente e tecnologicamente, qualità tutte associate a Tel Aviv, “Capitale Mediterranea del Cool”.

Sono molti aspetti su cui concentrarsi contemporaneamente, ma in un modo o in un altro, è sempre stato così. La capacità di resistere di fronte alle complessità estreme è un aspetto fondamentale della forza di Israele.

(*) Eran Lerman è l’ex responsabile per la politica estera e gli affari internazionali presso il Consiglio di sicurezza nazionale nell’ufficio del primo ministro israeliano. In precedenza, è stato direttore dell’Ajc Jerusalem

Aggiornato il 29 maggio 2018 alle ore 12:19