Resteranno delusi tutti i fan di Greta Thunberg, data quasi per certa vincitrice del Nobel per la Pace, che invece è stato assegnato al primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, autore dello storico accordo con l’Eritrea.

L’anno passato in occasione dello sbarco di alcuni eritrei in Italia scrivemmo che ci dispiaceva sentire che fossero in fuga dalla guerra, come in molte sedi si affermava. Ci dispiaceva perché conoscevamo i canti, i balli e le bandiere con cui i primi giorni di luglio 2018 era stato accolto ad Asmara, in Eritrea, il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali, colto riformista, che tanto aveva lavorato per quell’accordo. Tutto ciò lasciava ben preconizzare una lunga stagione di pace, quella che poi si è realizzata. Le foto della storica visita mostravano i volti sorridenti del leader etiope e del presidente eritreo Isaias Afewerki nel momento della firma di una dichiarazione che, mutuata dall’accordo di Algeri del 2000 mai entrato in vigore, poneva fine alle ostilità tra i due Paesi, in guerra dal 1998.

L’intesa - datata 9 luglio 2018 - oltre a mettere fine allo stato di guerra prevedeva il ripristino del collegamento aereo tra Addis Abeba e Asmara, la possibilità per le persone di circolare tra i due Paesi, il riallacciamento delle linee telefoniche, la riapertura delle Ambasciate e, soprattutto, la possibilità per l’Etiopia, priva di sbocchi al mare, di utilizzare porti eritrei. I contrasti tra i due Paesi risalivano alla seconda metà del secolo scorso, quando con il ritiro degli italiani l’Eritrea divenne una sorta di provincia federata all’Etiopia. La degradazione scatenò la reazione indipendentista del Fronte popolare per la Liberazione dell’Eritrea (Fple) che siglò i suoi successi operativi con la conquista di Asmara e Assab nel 1991. Due anni dopo l’Eritrea si dichiarò indipendente e venne nominato presidente Isaias Afewerki, tuttora in carica.

Nel 1998 tensioni relative al controllo di una zona di confine identificata dalla città di Badammè sono degenerate in un conflitto concluso ufficialmente nel 2000 con l’accordo di Algeri ma, come si è visto, dagli epigoni che hanno drammaticamente fatto salire il numero delle vittime a settantamila. A corollario dell’attesa dichiarazione di pace dovrebbe sopravvenire anche in Eritrea un percorso di normalizzazione costituzionale. Nel lungo periodo di presidenza, Isaias ha chiuso le Università e militarizzato lo Stato imponendo il servizio militare sino a 50 anni, imprigionato decine di migliaia di dissidenti politici, causando una diaspora che, con la pace e la fine dello stato di emergenza, ora richiede il ripristino delle libertà costituzionali sospese e la ripresa di tutte quelle articolazioni istituzionali che facciano risalire il Paese dagli ultimi posti della classifica mondiale di sviluppo e libertà.

La transizione democratica, di cui questi primi passi costituiscono buon aruspicio, avrà rilevanza sui destini di centinaia di migliaia di eritrei accolti nei campi profughi di tutto il mondo: dalla vicina Etiopia a Israele, dal Ruanda all’Europa, compresa l’Italia, spesso protagonista per tali motivi. In caso di successo e di avvicinamento a standard democratici accettabili cadrebbero le motivazioni per cui viene concesso lo status di rifugiato. La guerra tra i due Paesi è finita, e già da un anno si è consolidato un clima di cui quei volti sorridenti delle foto ripresi al momento in cui è stata sottoscritta la dichiarazione sono stati di buon auspicio ad una rapida evoluzione democratica nell’area.

Oggi la meritata assegnazione del Nobel per la Pace 2019 ad Abiy Ahmed Ali. Siamo soddisfatti.

Aggiornato il 11 ottobre 2019 alle ore 13:09