I cinque motivi che hanno causato il colpo di stato in Mali

Da quasi tre mesi il Mali era scosso da proteste guidate dal Movimento del 5 giugno – Raggruppamento delle forze patriottiche (M5-RFP), che hanno portato decine di migliaia di manifestanti a gremire la Piazza dell’Indipendenza di Bamako e quelle delle altre principali città per chiedere le dimissioni del presidente Ibrahim Boubacar Keita (noto con l’acronimo IBK). Una richiesta che affondava le proprie radici in almeno cinque recriminazioni.

Alla base del malcontento popolare c’era l’inefficace risposta alla pandemia di Covid-19 da parte del governo, alla quale si univano altre motivazioni come la corruzione endemica concentrata nel settore pubblico e l’elevato tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, aumentato del 7% da quando IBK nel 2013 era salito al potere. Ad alimentare il dissenso anche la crescita della povertà estrema, che secondo le stime della Banca mondiale affligge il 42,7% della popolazione maliana. E non ultima, la mancanza di un’efficace risposta alla crescente insurrezione jihadista, che ha reso ingovernabili vaste aree del Mali e costretto al rinvio delle elezioni legislative previste per l’ottobre 2018.

La scintilla che aveva innescato le proteste guidate dall’M5-RFP era invece scoccata in seguito alla decisione della Corte costituzionale di aver accolto i ricorsi presentati dal partito al potere, Raggruppamento per il Mali (Rpm), ribaltando i risultati elettorali per 31 seggi parlamentari e favorendo in questo modo l’Rpm, ma aprendo la strada ad accuse di brogli e corruzione.

Le manifestazioni anti-governative che sono seguite alla decisione dell’Alta Corte maliana sono iniziate pacificamente, ma all’inizio di luglio sono degenerate in scontri violenti, che hanno provocato la morte di 14 dimostranti e il ferimento di altri 154. Per reprimere il dissenso, il governo maliano è ricorso alle unità d’élite delle Forze speciali antiterrorismo (Forsat), create nel marzo 2016 e addestrate all’interno di uno dei programmi di formazione contro la guerriglia jihadista promosso dalla comunità internazionale.

Al momento ancora non si conosce la catena di comando responsabile dell’uccisione dei manifestanti, ma intanto l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha chiesto un’indagine sull’uso eccessivo della forza da parte degli apparati di sicurezza maliani.

La misura era ormai colma e martedì scorso cinque colonnelli dell’esercito hanno messo in atto un altro colpo di stato, dopo quello che nel 2012 spodestò il presidente eletto Amadou Toumani Touré al quale era sfuggita di mano la ribellione tuareg scoppiata nel nord del Mali, dove si erano inseriti diversi gruppi jihadisti, le cui emanazioni ancora oggi continuano a minare la sicurezza del Sahel.

Nel loro primo messaggio alla nazione, i militari ammutinati hanno annunciato di aver istituito il Comitato nazionale per la salvezza del popolo (Cnsp) e hanno affermato di voler dare seguito a una transizione politica civile, che dovrebbe portare alle elezioni generali entro un tempo ragionevole.

Non è chiaro se il colpo di stato sia stato programmato con largo anticipo, così come non si può ancora sapere se il Cnsp rappresenti tutte le forze dell’ordine del Mali o solo una parte. Quello che invece appare certo è che l’attore principale con cui dovrà confrontarsi il Cnsp per decidere il futuro del Mali è il Movimento del 5 giugno, che ha accolto positivamente il colpo di Stato e si è dichiarato a favore di una «transizione politica civile».

Gli imperdonabili errori del presidente Keita

IBK ha commesso vari errori di valutazione che hanno portato ala sua estromissione dalla scena politica maliana. Con poca cautela, aveva previsto che lo scioglimento “de facto” della Corte Costituzionale e il varo di alcune riforme giudiziarie e legislative avrebbero accontentato l’opposizione, che chiedeva ben altre riforme definitive che avrebbero posto fine al suo potere. Le concessioni del presidente maliano sono quindi risultate insufficienti e tardive, oltre ad essere screditate dalla dura repressione da parte delle Forsat nei confronti dei manifestanti, che ha acuito il risentimento dei maliani e danneggiato ulteriormente la legittimità del governo.

Keita non si era avveduto che da tempo era svanita la fiducia del popolo negli slogan sulla riaffermazione dell’orgoglio nazionale, che nel 2013 lo avevano portato a una schiacciante vittoria elettorale sul capofila dell’opposizione Soumaïla Cissé. Ma il suo errore più grande è stato quello di credere che le proteste si sarebbero esaurite col passare dei mesi e che fosse ancora possibile un compromesso politico con l’opposizione. Anche se era evidente che sarebbe stato accettato solo da pochi leader della protesta, i quali avrebbero acconsentito di far parte di un governo di unità nazionale.

A tutto questo va aggiunta, la sua incapacità di usare la popolarità iniziale per ottenere il consenso del popolo e delle istituzioni ad accettare i difficili compromessi necessari per raggiungere un accordo di pace efficace con i separatisti tuareg nel nord. Un approccio dilatorio che ha lasciato un vuoto in cui il terrorismo jihadista ha potuto prosperare arrivando a destabilizzare vaste aree del Mali settentrionale e centrale, diventato l’epicentro dei movimenti estremisti attivi nel Sahel.

(*) Il Nodo di Gordio

 

Aggiornato il 27 agosto 2020 alle ore 13:57