In Africa occidentale la “febbre” è dell’oro

Le ricchezze dell’Africa hanno sempre sorpreso i suoi non disinteressati visitatori. Gli aspetti culturali, quelli antropologici, quelli socio-politici, l’enorme ricchezza del suolo e del sottosuolo, hanno attratto ogni tipo di “passione” e causato quasi sempre dissesti e drammi sociali. Ora la scoperta di una vena aurifera lungo il Sahel, che altrove potrebbe essere una fortuna, qui rappresenta l’ennesimo pericolo che mina la già instabile realtà. Questa vena aurifera sahariana, che si estende dal Sudan alla Mauritania, sta impegnando le massime compagnie del settore estrattivo aureo mondiale, ma anche una moltitudine di poveri disgraziati autoctoni che vedono nella ricerca dell’oro una opportunità di miglioramento della loro situazione; ma soprattutto, questa fonte di ricchezza ha attivato anche i gruppi jihadisti che infestano il Sahel, che si sono inseriti nell’estrazione e nel commercio del prezioso metallo giallo. Con la scoperta di questo filone aureo, l’Africa occidentale è ora la quarta area più ricca di oro del pianeta, dopo la Cina, la Russia, l’Australia ed il Canada.

Questi nuovi sogni (o incubi) di un El Dorado africano vorticano sull’altopiano di Djado nel Niger nord-orientale, fendono le aree boschive della Costa d’Avorio e penetrano dentro le aree desertiche del Ciad. Con la scoperta della enorme vena aurifera quattro Stati dell’area saheliana sono ora tra i primi 20 produttori mondiali di oro: il Ghana con 147 tonnellate estratte è diventato il principale produttore del continente, segue il Sudan con 79 tonnellate, il Mali 73 tonnellate, il Burkina Faso con 64, più in dietro il Niger. Non è casuale che questi Paesi, attualmente, sono anche tra quelli che stanno soffrendo maggiormente la violenza jihadista. L’area definita dei tre confini, Niger, Burkina Faso e Mali, è anche la zona dove la presenza degli eserciti stranieri è più incisiva.

L’esistenza dell’oro innesca dinamiche estremamente articolate: il suo commercio obbliga gli Stati possessori di miniere a difendere il proprio patrimonio, così come chiama i gruppi terroristici ad appropriarsene, così come impegna gli Stati esteri a non permettere che il terrorismo si arricchisca con il traffico dell’oro, cercando di mantenere, a tutti i costi, un ascendente sui governi dei Paesi proprietari delle miniere. Ricordo che per tutti questi Paesi l’oro è diventato il principale prodotto di esportazione.

Questa sotto-regione sahariana, ancora “sotto-esplorata”, sta attirando un numero crescente di investitori stranieri, come l’australiana Perseus Mining, le canadesi Barrick Gold, l’Iamgold e l’Endeavour Mining. Tuttavia, se la maggior parte dell’estrazione è effettuata da imprenditori con convenzioni più o meno formali con gli Stati proprietari, l’estrazione illegale dell’oro colpisce l’intero Sahel e coinvolge milioni di cercatori d’oro abusivi. Molti di questi hanno abbandonato le loro attività agricole a favore di una immediata speranza di fortuna. Così questo doppio binario di scavi è cresciuto notevolmente, causando anche conflitti territoriali tra industriali e cercatori illegali.

L’altro aspetto di questo scenario è che questo traffico di oro, spesso incontrollato, sta avvantaggiando le reti jihadiste già molto penetranti nel tessuto sociale saheliano. Secondo il centro di analisi strategica norvegese Rhipto, il reddito dei gruppi armati del Sahel, legato all’oro, sarebbe aumentato nel 2020 dal 25 al 40 per cento anche a causa delle restrizioni “consigliate” dall’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) ai Paesi africani. Tali indicazioni per il contenimento del Coronavirus hanno fatto chiudere le frontiere, rendendo più difficili altre fonti di reddito basati su scambi ad ampio raggio, altro effetto della psico-pandemia in un’area geografica indifferente al Covid.

Inoltre l’Igc (International crisis group), una Ong nata con lo scopo di “prevenire e aiutare a risolvere conflitti mortali”, alla fine del 2019 ha rivelato che nell’area dei tre confini (Mali, Burkina Faso e Niger), punto nevralgico del jihadismo saheliano, dal 2016 i gruppi armati più o meno legati al terrorismo islamico hanno trovato nelle miniere d’oro, una nuova fonte di finanziamenti e un nuovo terreno di reclutamento. L’industria dell’oro sta spingendo molte grandi aziende a modificare le loro strategie, in funzione dei nuovi ricchi scenari africani; ma mentre questa tendenza si traduce, nelle sale d’asta, con commercianti che spostano lingotti con la semplice pressione di un pulsante, una realtà completamente diversa si svolge nelle miniere africane, dove le vittime dell’oro si perdono nelle speranze, sotto le frane e nei cunicoli allagati.

Aggiornato il 19 aprile 2021 alle ore 10:25