Portogallo, come ridurre a “cose” madre e bambino

Il 30 novembre il presidente del Portogallo Marcelo Rebelo de Sousa ha promulgato la legge sulla maternità surrogata, approvata dal Parlamento con diverse modifiche rispetto alla precedente versione, accogliendo i rilievi sollevati dalla Corte costituzionale. Quest’ultima in due occasioni aveva dichiarato illegittima la proposta legislativa deliberata dal Parlamento portoghese, in quanto non contemplava la tutela del cosiddetto “diritto di ripensamento” della madre surrogante. Nella nuova stesura della legge il Parlamento ha inserito il termine di venti giorni entro i quali la gestante può decidere di non cedere il neonato alla coppia di “committenti”. Un simile diritto, come è stato precisato commentando un recente provvedimento dell’autorità giudiziaria italiana, è già stato riconosciuto non soltanto dalle corti statunitensi che nel corso degli ultimi anni si sono più volte occupate dei numerosi e sempre dilaceranti contenziosi nascenti dalla pratica dell’utero in affitto, ma incidentalmente anche in Italia, allorquando la Corte d’Appello di Milano ha statuito la possibilità della gestante di tenere per sé il nascituro “non potendo imporsi alla donna per contratto (né per legge) di usare il proprio corpo a fini riproduttivi e di essere, o non essere, madre”. Il Parlamento portoghese ha limitato l’accesso a questa tecnica soltanto per le donne senza utero, o con una lesione o una situazione clinica che impediscano loro in modo definitivo di iniziare una gravidanza.

Sul piano strettamente biogiuridico va considerato che il Portogallo si inserisce nell’elenco dei Paesi che, legalizzando la maternità surrogata, riconosce espressamente l’esistenza di un inedito “diritto al figlio”, mettendo da parte, anzi espressamente violando, la costitutiva dignità del nascituro che come tale, cioè in quanto essere umano, non va reso oggetto di un presunto diritto altrui. Deve aggiungersi che, sebbene sia per adesso prevista come pratica al fine di garantire la maternità a quelle donne che per motivi clinici non possono intraprendere la gestazione, questo non ridimensiona la strutturale anti-giuridicità della pratica della surrogazione poiché riduce sia la gestante, sia il nascituro, sia i committenti medesimi (a loro stessa insaputa) a mezzi per la soddisfazione di un desiderio, come tale estraneo alla dimensione del diritto. La oggettificazione del nascituro non è data soltanto dalla eventuale presenza di compenso che la coppia committente presta in favore della gestante, ma dal fatto che proprio quest’ultima recide ogni legame con il nascituro consegnandolo alla coppia committente come una qualunque res oggetto di trasferimento contrattuale, sia esso un trasferimento a titolo oneroso o gratuito.

Anche la maternità surrogata cosiddetta “altruistica, cioè destinata ad aiutare coloro che non possono diventare genitori a realizzare il proprio desiderio di genitorialità non è meno eticamente e giuridicamente problematica se è priva del sistema del compenso come nella prassi ordinaria del cosiddetto “utero in affitto”. Il fine cosiddetto altruistico non depotenzia il disvalore giuridico dell’operazione, sia perché il giusto fine necessita sempre di un giusto mezzo, cioè di un mezzo che non strumentalizzi o violi la dignità umana, sia perché la madre surrogante e il nascituro comunque reificati, ridotta a mera incubatrice naturale la prima e ad oggetto di “donazione” il secondo.

Oltre a ciò, la scelta del legislatore portoghese di legalizzare la maternità surrogata seppur per le donne che non possono condurre la gravidanza, pone ulteriori difficoltà, sia in quanto essa non è una pratica terapeutica, annoverabili quale strumento di tutela del diritto alla salute, sia in quanto proprio in quest’ottica essa costituisce una violazione del diritto alla salute del nascituro, come evidenziano i più recenti studi secondo i quali nei mesi della gravidanza anche tra la madre surrogante e il feto biologicamente non suo si innescano delle forti relazioni genetiche che modificano il reciproco Dna facendo diventare – seppur in parte – il feto biologicamente parte della stessa gestante. Si apre, insomma, la via per la completa destrutturazione dei rapporti famigliari che la maternità surrogata causa, per la completa reificazione dell’essere umano, e per il riconoscimento legale di forme di famiglia che famiglia non sono in virtù della loro strutturale contrarietà al piano del diritto naturale che informando tutte le piattaforme costituzionali e giuridiche degli Stati di diritto occidentali non può essere né colposamente ignorato né dolosamente violato, neanche per il tramite di una legge approvata da un Parlamento.

Facendo uno sforzo di sintesi e di previsione, in considerazione dei tempi attuali e degli orientamenti giurisprudenziali spesso uniformati dalla medesima logica interventista, nonché dal solco tracciato dalle passate esperienze in temi analoghi, non risulta difficile ritenere che, caduto il divieto assoluto e sebbene legalizzata per motivi strettamente clinici, la pratica della maternità surrogata in Portogallo sarà presto o tardi estesa oltre le indicazioni strettamente mediche, venendo riconosciuta alle donne che non soltanto non possono, ma semplicemente non vogliono intraprendere la gravidanza – con i rischi connessi – pur senza rinunciare alla maternità, o ai single, o alle coppie del medesimo sesso, inevitabilmente sterili. Insomma, la deliberazione del Parlamento portoghese, lungi dal rappresentare la soluzione di alcuni problemi, è essa stessa causa prima e diretta di ben più gravi e ulteriori difficoltà, specialmente perché si inserisce in un momento di sfavore internazionale nei confronti della pratica della maternità surrogata, che da più parti – pure di area laica e progressista – si richiede venga sanzionata ovunque come reato “universale”.

(*) Tratto dal Centro Studi Rosario Livatino

Aggiornato il 08 dicembre 2021 alle ore 09:45