Eurasia: il vero obiettivo di Mosca

Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov si rivolge direttamente alla Nato e all’Europa. Quanto alla prima sostiene si tratti di un’organizzazione che ha perso di vista il fine difensivo per il quale è stata creata, finendo per diventare fautrice di una politica estera aggressiva e imperialista (critica credibile, se proveniente da chi di espansionismo e imperialismo non ne sa assolutamente nulla). Al tempo stesso, il rappresentante di Vladimir Putin, dichiara che gli Stati europei, difendendo l’Ucraina e mettendosi contro la Russia, stanno andando contro i loro interessi nazionali. “I rapporti tra questi due blocchi – chiarisce Peskov – potranno essere ripresi quando l’Europa avrà smaltito la sbornia americana e avrà capito che il suo futuro (del “nostro Continente”, dice il funzionario ruteno) è nell’alleanza e nel dialogo con la Russia, nell’ambito del progetto chiamato Eurasia”.

Finalmente un membro della cerchia di Putin che riesce a essere sincero, anche se in maniera del tutto involontaria e probabilmente solo per dabbenaggine. Finalmente qualcuno che chiarisce quali sono sempre stati gli obiettivi e le mire geopolitiche del Cremlino, il fine per il quale la Russia fascio-mafiosa del novello zar ha lavorato per vent’anni: l’Eurasia. In un primo momento, hanno provato a realizzare questo progetto avvicinandosi con discrezione all’Europa, simulando amicizia e offrendole gas e petrolio a prezzi stracciati per renderla energeticamente dipendente e, quindi, vincolata alle scelte del Cremlino. In un secondo momento, cercando di destabilizzare dall’interno il sistema liberal-democratico europeo attraverso i finanziamenti e la cyber-propaganda (a base di fake news e di complottismo, che hanno indotto una parte considerevole dell’opinione pubblica a diffidare delle istituzioni e dell’informazione ufficiale per rifugiarsi nella controinformazione) in favore dei movimenti euroscettici e sovranisti. Solo quando questi primi due tentativi si sono rivelati fallimentari, i russi hanno deciso di scoprire le carte, di rendere manifeste le loro intenzioni e di passare alle prove di forza.

Ma cos’è, veramente, l’Eurasia, e cosa si intende con questo termine nel linguaggio politico russo? Si tratta di un concetto da sempre presente nelle logiche e nelle visioni dei governanti e degli intellettuali russi, nonché nella loro ambizione di fare di Mosca la “Nuova Roma”. Già lo zar Alessandro I al Congresso di Vienna sosteneva la necessità di riunire gli Stati dell’Europa continentale in una federazione sotto l’egida russa. Successivamente, sul finire dell’Ottocento, tale visione geopolitica fu espressa e sintetizzata da Konstantin Leont’ev, il quale contrapponeva il “bizantinismo” –peculiare della civiltà russa e avente quali segni distintivi l’autocrazia e il cristianesimo – al “razionalismo” di matrice illuminista, ritenuto distruttore e nefasto per le popolazioni europee: da qui la necessità, per la Russia, di raggruppare sotto la sua influenza tutti i popoli non ancora “contaminati” dagli ideali illuministi per salvarli dal progressismo, dall’imborghesimento e dalla decadenza morale. Sembrano le parole di Putin, quelle dei suoi tirapiedi o del grottesco patriarca Kirill, effettivamente.

La visione di Leont’ev fu approfondita e sistematizzata successivamente, agli inizi del Ventesimo secolo, da intellettuali come Nickolaij Trubeckoj, Georgij Vernadskij e Petr Savickij. Fuggiti dalla Russia in seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, i tre iniziarono a porsi degli interrogativi sulla cultura russa, ritenuta erede diretta di quella asiatica e, particolarmente, mongola. Nella loro teoria, le istituzioni e la mentalità della Russia zarista erano state fortemente influenzate dai modelli di governo e di organizzazione sociale delle tirannidi asiatiche, il cui retaggio avrebbe favorito più di ogni altra cosa la trasformazione della Russia in un’autocrazia potente, unita e monolitica e della società russa in una comunità disciplinata e organica. Da ciò i tre intellettuali derivavano il concetto di eurasiatismo, il cui postulato era l’integrazione politica di tutti i popoli culturalmente affini per resistere e opporsi all’influenza omologatrice dell’Occidente. Cosa ancor più interessante è la straordinaria lungimiranza con cui seppero prevedere l’evoluzione politica che il loro Paese avrebbe vissuto nei successivi decenni, in quanto preconizzarono la trasformazione del regime comunista sovietico in un regime autocratico, nazionalista, fortemente legato al cristianesimo ortodosso e alternativo all’Occidente democratico e individualista: il ritratto della Russia di Putin, insomma. L’ultimo degli eurasiatisti (come lui stesso amava essere definito) fu Lev Gumilev, il quale, da studioso di etnologia, faceva risalire le origini della civiltà russa alle tribù asiatiche e, particolarmente, mongole, la cui influenza – in termini di sangue e cultura – avrebbe “protetto” e reso immuni i russi dalle “contaminazioni” culturali dell’Occidente.

Arriviamo così ai giorni nostri e alla Russia contemporanea, il cui intellettuale di punta è senz’altro Alexander Dugin che, neanche a dirlo, di Gumilev è stato allievo. A lui si deve la formulazione del “neo-eurasiatismo”, che postula la necessità dell’integrazione politica e strategica tra la Russia e le nazioni europee in funzione anti-americana, anti-liberale e anti-globalista. Dopo la militanza nel gruppo ultranazionalista, fondamentalista cristiano e antisemita Pamyat – che nella Russia dei primi anni Novanta denunciava la democrazia parlamentare come strumento della “giudeo-massoneria” e che venne sciolto a seguito dei numerosi episodi di violenza di cui i suoi militanti furono protagonisti – Dugin fondò, assieme allo scrittore Eduard Limonov, il Partito nazionale bolscevico, fautore della conservazione dell’eredità morale e culturale del periodo sovietico e della fusione politica tra i popoli europei e quello russo, secondo la teoria di Jean Thiriart, teorico della “nazione europea” da Dublino a Vladivostok.

Abbandonato il progetto per dissidi con la linea di Limonov, Dugin fondò il Movimento politico panrusso “Eurasia”, che a partire dal 2001 divenne una costola di Russia Unita, il partito capeggiato da Vladimir Putin. Gli obiettivi rimangono gli stessi e sembrerebbero essere proprio quelli portati avanti dalla politica ufficiale del Cremlino: primo, quello di riunire i popoli europei sotto l’influenza di Mosca, pur lasciando ciascuna nazione libera di conservare la propria identità e le proprie radici storico-culturali; secondo, costituire un blocco antagonista agli Stati Uniti d’America e lavorare per la creazione di un mondo multipolare; terzo, lottare contro l’egemonia politico-culturale del liberalismo democratico e contro quella economica del capitalismo, in favore di una visione autocratico-collettivista, in cui i diritti e gli interessi degli individui sono subordinati e strumentali al raggiungimento di un fine generale e utile per tutti. In estrema sintesi, l’eurasiatismo non è altro che la nuova formula con cui l’imperialismo neo-zarista e post-sovietico russo cerca di accreditarsi agli occhi delle popolazioni europee. Non è altro che l’idea alla base di un progetto deprecabile, qual è quello di imporre il giogo di Mosca ai popoli liberi del Vecchio Continente. Non è altro che una teoria “fascio-comunista” in salsa moscovita.

I russi non hanno mai voluto limitarsi a difendere i propri interessi nazionali o a sperimentare forme di governo e di organizzazione sociale diverse e alternative a quelle occidentali – come spesso dichiarato da Putin in risposta alle accuse mosse al suo Paese dalle organizzazioni internazionali – ma hanno sempre cercato di esportare tale visione e di fare della Russia il cuore di un sistema di “nazioni-satelliti” (i Paesi europei) orbitanti nella sua galassia; lo “Stato-guida” di un’Europa governata da leader autocratici e assoggettati ai diktat del Cremlino. Questo, se non altro, dimostra che hanno ragione il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, e il premier Mario Draghi quando dicono che gli ucraini non stanno lottando solo per la loro libertà, ma per quella di tutti i popoli europei, poiché Mosca vuole asservire ognuno di loro proprio come sta cercando di fare con l’Ucraina.

Quelli che demonizzavano l’Europa come nemica della democrazia e della sovranità nazionale e che vedevano negli Usa la quintessenza dell’imperialismo e dell’unilateralismo, avvicinandosi a questa teoria e vedendo nella Russia putiniana una specie di “ancora di salvezza” hanno volontariamente (e si direbbe paradossalmente) scelto di cooperare con uno Stato che è davvero irrispettoso del diritto dei popoli all’autodeterminazione e che intende perseguire i suoi interessi nazionali a discapito di quello di altri Paesi, come nella miglior tradizione del vero imperialismo. Ciò dimostra che il problema di costoro non è mai stato la difesa della sovranità nazionale o l’indipendenza dei popoli da qualunque influenza politico-culturale esterna, ma la loro avversione alla democrazia liberale. Il motivo per cui amano i russi è solo il loro odio per la cultura e le istituzioni liberali che tanto la Ue quanto gli Usa incarnano. Tanto la destra radicale quanto la sinistra pseudo-pacifista e anti-americana osannano e strizzano l’occhio a Putin perché disprezzano l’Occidente democratico e liberale e perché auspicano di vedere le nazioni europee trasformarsi in autocrazie collettiviste agli ordini di Mosca, in tanti “protettorati” russi, in un consesso di Stati-fantoccio agli ordini del Cremlino.

Questo, se non altro, contribuisce a rafforzare e a rendere più evidente – semmai ce ne fosse stato bisogno – quello che era già abbastanza chiaro: la sfida di oggi non è più tra destra e sinistra; tra conservatori e progressisti; tra globalisti e sovranisti; ma tra visione liberal-democratica e concezione autocratico-collettivista. Ragion per cui, all’eurasiatismo di Putin, Dugin, Peskov e dei loro sodali europei (nella cultura, nella politica e nell’informazione), è oggi più che mai opportuno contrapporre una rivisitazione dell’atlantismo, che non deve più limitarsi a essere una visione geopolitica e strategica, ma che deve assurgere al rango di identità politico-culturale schierata in difesa del mondo libero rispetto a qualunque disegno volto a metterne in crisi o a ridimensionarne la predominanza e l’egemonia. Il futuro – degli Stati come degli individui – è determinato unicamente dalle scelte che compiamo nel presente. Di conseguenza, il futuro degli Stati europei – che hanno scelto di essere delle democrazie e di vivere secondo i valori di libertà – non è al fianco delle autocrazie come quella russa, ma in un serio progetto di integrazione europea e nel consolidamento dell’alleanza e della storica amicizia con gli Stati Uniti.

Quanto agli interessi nazionali – che Peskov sostiene siano stati traditi dai vari Stati europei che hanno sposato la causa ucraina – il portavoce di Putin non ha evidentemente compreso come il senso dell’Europa sia proprio quello di procedere verso il superamento degli egoismi e della logica “dell’orticello” in favore di una visione e di una strategia comune. Questo non sorprende più di tanto, visto il feroce nazionalismo che anima la Russia e che questo Paese ha cercato di risvegliare anche in Europa per dividerci, per renderci più deboli e, quindi, facili prede dei disegni espansionistici di Mosca.

Da ultimo, il fatto che la Nato abbia adottato una linea di sostanziale co-belligeranza al fianco dell’Ucraina è segno del fatto che l’alleanza è più viva che mai e sta semplicemente adempiendo alle sue funzioni: quella di difendere la sua sfera d’influenza (e i Paesi che gravitano attorno a essa) da qualunque minaccia. Peskov farebbe bene a ricordare chi è l’aggressore in questa vicenda e chi è l’aggredito. Cosa stiamo facendo se non dare agli ucraini la possibilità di resistere e di respingere i russi che sono entrati in armi nel loro territorio, che hanno distrutto le loro case, bombardato le loro infrastrutture e seminato morte e distruzione in ogni dove? Il ruolo della Nato nel conflitto russo-ucraino conferma la natura difensiva dell’Alleanza Atlantica nella misura in cui stiamo aiutando un Paese ingiustamente aggredito a difendersi da uno Stato autoritario che non tollera l’idea di avere una democrazia ai suoi confini, che pensa di poter imporre il suo volere con la violenza e di avere il diritto di esternalizzare i costi delle sue politiche di sicurezza interna sui suoi vicini di casa.

Aggiornato il 05 aprile 2022 alle ore 09:54