Terremoto a Idlib: soccorrere i jihadisti?

Terremoti di terra e di politica. Come sempre, a pagare il prezzo più elevato in vite umane e in devastazioni sono le zone depresse come Idlib, nel nord-ovest della Siria, ad alta densità di rifugiati, tra cui molte migliaia di jihadisti dell’Isis con le loro famiglie, che hanno trovato riparo in case fatiscenti già seriamente danneggiate da un decennio di bombardamenti dell’aviazione di Bashir al-Assad e di quella russa. Per volontà di Damasco, l’aiuto mondiale per soccorrere le regioni siriane devastate dal terremoto incontra seri ostacoli di politica internazionale, essendo la Siria sottoposta a embargo e divisa sostanzialmente in tre parti. La prima, controllata dall’esercito siriano; la seconda presidiata dalle forze curde dell’Ypg appoggiate dagli Usa; la terza, quella di Idlib, collocata ai confini con la Turchia, dove si concentrano le forze antigovernative e islamiste qaediste e sunnite. Alleati del dittatore siriano oggi sono Russia, Iran e Cina, con i mercenari di Mosca e i mujahidin di Teheran che hanno aiutato Bashir al-Assad a battere le forze rivoluzionarie e lo Stato Islamico. E proprio a Idlib si concentra un delicato quadrante geopolitico, con Ankara pronta a invadere militarmente la fascia di confine, qualora l’esercito di Damasco tentasse di espugnare l’ultima roccaforte dei ribelli. Da parte loro, gli islamisti sunniti considerano la Siria un nemico mortale per ragioni politiche e religiose, essendo Assad un tiranno “eretico” appartenente alla setta sciita degli alawiti.

Geologicamente, la regione di Idlib, sistemata su due faglie, è stata la più colpita dalle due terrificanti scosse del 6 febbraio, con più di metà degli ospedali distrutti in oltre dieci anni di guerra civile da incessanti raid aerei da parte dell’aviazione siriana, di cui il più recente risale al gennaio scorso. A cotanto disastro di 12 anni di conflitto interno, il colpo di grazia lo ha dato un terremoto notturno di 7.9 della Scala Richter, in ragione dell’impossibilità politica e pratica di portare un soccorso adeguato alle popolazioni colpite. E chi ieri era fuggito dagli orrori della guerra civile portando con sé le poche masserizie recuperate, oggi, da sopravvissuto al terremoto, si ritrova senza più un tetto, un letto e un materasso per dormire; desolatamente solo di fronte a un disastro naturale che lo lascia senza speranza. Se già mancava tutto nei campi profughi, privi di elettricità, fognature e acqua potabile, adesso sotto le macerie di povere case di centinaia di villaggi completamente rasi al suolo rimangono migliaia di vittime destinate a restare dove sono, sepolte sotto le rovine. E chi è salvato dalla duplice scossa delle quattro del mattino ora locale, e di metà mattina all’ora di pranzo, rischia di restare congelato e di morire di freddo, fame e sete, per mancanza di viveri, acqua, carburante e legna da ardere. Inoltre, molti dei sopravvissuti si rifiutano di tornare nelle proprie abitazioni, terrorizzati dalle incessanti scosse di assestamento e si attrezzano con ripari di fortuna lungo le strade. Se in molte zone di Siria e Turchia manca il pane, è semplicemente perché la maggioranza dei forni si è sbriciolata sotto il terremoto.

Coloro ai quali è rimasta solo la strada e il cielo aperto per sfuggire alle scosse, bruciano tutti i cascami di legno recuperati tra tonnellate di macerie, porte e finestre delle abitazioni incluse. Molti, per sfuggire al gelo sotto le tende ricoperte da un semplice telone di plastica, vivono in macchina con quel che resta delle loro famiglie, utilizzando il riscaldamento dell’auto per ripararsi dal freddo intenso, fino a esaurimento del carburante. Ma, anche qui: a causa del terremoto, i rifornimenti sono praticamente già finiti e i pochi benzinai aperti, soprattutto in alcune zone turche e del nord-ovest della Siria, hanno file di attesa di svariati chilometri dinanzi ai loro distributori. Anche se in tutta la Siria, ben prima del terremoto, si registrava una gravissima carenza di carburante, oggi divenuta nella zona del nord-ovest una terribile emergenza. Nella regione di Idlib, i pochi pozzi artesiani disponibili sono stati invasi dal fango e c’è il rischio consistente di una forte ripresa dell’ondata di colera, già presente da più di un anno nell’area. Tra l’altro, nella fascia controllata dai jihadisti mancano quasi del tutto i mezzi di movimento terra e le gru pesanti per sollevare detriti da svariate tonnellate. A Idlib non si sono visti che volontari costretti a scavare a mani nude, utilizzando rudimentali corde per rimuovere le rovine più superficiali o, nei punti più fortunati, avvalendosi di piccole macchine escavatrici, impiegate nella povera edilizia locale. Molti “caschi bianchi” della protezione civile turca e siriana sono a loro volta indisponibili al soccorso, perché impegnati nelle proprie zone di origine nella disperata ricerca di ritrovare vivo qualche congiunto.

Terribili le loro testimonianze raccolte dalla stampa internazionale: è capitato ai team di soccorso, impossibilitati a recuperare da sotto le macerie chi ancora chiedeva aiuto, di esercitare la forma più nobile di pietas umana prestando ascolto alle ultime volontà dei morenti, e rassicurandoli che le loro parole e gli ultimi saluti sarebbero stati fedelmente riportati ai congiunti eventualmente sopravvissuti. Nei pochi ospedali super affollati di Idlib, costretti a ricorrere ai generatori autonomi a diesel, consumando così quel che restava delle scarsissime riserve di carburante, i medici sono stati costretti ad adottare le procedure d’emergenza da codice guerra (così come avvenne anche da noi con la prima fase del Covid, allora mostro virale sconosciuto all’umanità), togliendo i respiratori a chi aveva scarse probabilità di sopravvivenza, per darli ad altri con migliori prospettive di cavarsela. Nelle zone controllate dall’opposizione siriana i medici d’urgenza non ci sono quasi più, allontanati dagli incessanti bombardamenti russi e siriani, e i pochi rimasti sono stati costretti a operare e curare feriti e malati con sempre più scarsi presidi sanitari e farmaceutici a loro disposizione. Per cui, nei primi giorni del post-terremoto venivano allineati senza sosta lungo corridoi e spazi comuni centinaia di salme recuperate, decapitate o prive di arti superiori o inferiori. Chi aveva riportato gravi danni renali in conseguenza dei crolli, non ha potuto essere curato mancando le macchine per la dialisi, mentre altri ancora dei sopravvissuti erano costretti ad abbandonare villaggi già distrutti dal sisma per l’ulteriore allagamento dell’area, a causa di una diga gravemente lesionata dal terremoto.

Poiché le poche strade di collegamento sono per lo più risultate seriamente danneggiate (le fratture del terreno scorrono discontinue per centinaia di chilometri, ignorando i confini geografici disegnati dagli uomini), nei primi giorni del dopo sisma gli autisti dei pochi convogli umanitari non sono riusciti a portare gli aiuti di emergenza, come tende, acqua, coperte. Finora, i morti in questa aerea a nord-ovest della Siria si contano in alcune migliaia, in base a un primo bilancio che non solo è destinato a salire nel tempo, ma le cui contabilità non saranno mai chiarite, visto che manca qualsiasi organizzazione amministrativa anagrafica in un’area a elevata densità di profughi, che vanno e vengono attraverso i confini turco e siriano. Grazie alla guerra civile, mai veramente terminata, nella regione di Idlib non è arrivato nulla del flusso interrotto, diretto in Turchia, dei team internazionali di soccorso e recupero dei sepolti vivi, dotati di cani molecolari e di rilevatori sofisticati in grado di captare minimi segnali di vita da sotto le macerie. Chiaro che, dopo una settimana dal terremoto, le ricerche non avranno più senso, e si darà inizio alla triste contabilità finale dei morti e feriti, compresi quelli che saranno deceduti per il freddo, soprattutto i più piccoli.

Degli 11 milioni di terremotati siriani, ben quattro milioni fanno affidamento per la loro sopravvivenza, in quanto profughi, esclusivamente sugli aiuti umanitari dell’Onu, per viveri di prima necessità e acqua potabile. Dei primi sei autotreni di aiuti, passati il 9 febbraio dal varco turco verso Idlib di Bab al-Hawa, l’unico rimasto aperto durante la guerra, molti contenevano beni superflui, come pannolini per neonati del tutto inutili per i bambini rimasti sepolti sotto le macerie. Dato che, durante questi ultimi 12 anni di guerra civile, almeno altri quattro milioni di rifugiati siriani sono stati ospitati (per modo di dire) in Turchia, le salme di coloro che sono deceduti in territorio turco a causa del terremoto sono tornate indietro nella propria patria di origine, sigillati nei loro sacchi neri. Il problema degli aiuti umanitari si scontra ancora una volta con la politica dei tiranni: Recep Tayyip Erdoğan, da un lato della frontiera; il clan di Al-Assad dall’altro che pretende di essere lui, il vero responsabile della tragedia dei profughi pre-terremoto, a distribuire ai suoi oppositori, i terremotati di Idlib, i beni di primi necessità forniti dall’Onu e da altre istituzioni caritatevoli internazionali, approfittando dell’occasione per chiedere la sospensione o il congelamento delle sanzioni internazionali. Gli sciacalli, come si vede, a volte hanno il volto di qualche “Stato canaglia”.

Aggiornato il 16 febbraio 2023 alle ore 09:25