La libertà è donna

Stanno facendo il giro del mondo le immagini della donna che durante le manifestazioni a Tbilisi, in Georgia, tiene alta la bandiera dell’Unione europea, non lasciandosi intimorire dagli idranti e non arretrando dinanzi alle cariche della polizia. Nel Paese caucasico, in cui si respira un clima da guerra civile, con la popolazione e la presidenza favorevoli all’avvicinamento all’Europa e alla Nato e il Parlamento e i ceti più abbienti vicini alla Russia – che già occupa un parte considerevole del territorio – a spingere i cittadini a scendere in piazza è stato il tentativo – per ora sventato – di approvare una legge contro gli “agenti stranieri” volta a reprimere ogni anelito alla libertà e allo stile di vita occidentale e a riportare de facto la repubblica ex sovietica sotto l’orbita di Mosca. Simbolo della protesta e del desiderio di libertà è diventata quella manifestante, che ha fronteggiato la polizia armata solo di quella bandiera europea.

Anche in Moldavia, dove i manifestanti filo-russi hanno tentato l’assalto alle sedi istituzionali non più di qualche giorno fa, probabilmente istigate e sostenute da Mosca, e sulla quale si addensano nubi di guerra, con Vladimir Putin che ha revocato il decreto sulla sovranità del Paese e minaccia la Transnistria, la presidente liberale, filo-europea e filo-americana, Maia Sandu, è l’unico argine alla reazione illiberale che il ritorno di Igor Dodon o di qualche altro burattino del Cremlino inevitabilmente comporterebbe. La leader bielorussa dell’opposizione al regime di Aljaksandr Lukašėnka, Svjatlana Cichanoŭskaja, condannata a quindici anni di carcere in contumacia, predice il crollo della dittatura nel suo Paese sotto il peso dei crimini commessi dalla medesima e invita i suoi a non cedere alle intimidazioni e alla repressione.

In Iran le donne sono insorte contro il regime fondamentalista che da decenni opprime il Paese con leggi oscurantiste e repressive e dove milizie di fanatici religiosi agiscono al di fuori di ogni limite e quadro normativo. A innescare la rivolta – come tutti sanno – l’uccisione di una giovane colpevole di non indossare correttamente il velo. Non temono di scoprirsi il capo, pur consapevoli che questo potrebbe costare loro la vita. Non temono gli avvelenamenti nelle scuole per scoraggiare le ragazze ad aprire i libri e, con essi, le menti. Non temono di fronteggiare la polizia religiosa. Meglio morte che ancora schiave. Non diversamente in Afghanistan: mentre gli uomini accettavano passivamente il ritorno dei talebani al potere e la drastica involuzione sociale e culturale che questo ha comportato, le donne sono scese in piazza per difendere quei diritti che avevano conquistato negli ultimi vent’anni, non ultimo quello di poter andare a scuola. Sono state uccise, picchiate, violentate, fustigate dai talebani, ma non per questo hanno desistito. Vanno avanti nella loro resistenza al regime.

Anche in Occidente, dove non abbiamo questi problemi e le donne sono libere, ancora si sente parlare di femminicidi, di violenze e di abusi. Questo significa che, anche nei nostri civilissimi Paesi, nelle nostre liberaldemocrazie, c’è ancora molta strada da fare verso quel grande traguardo che è la parità dei diritti. Parità che non è sinonimo di quote rose e che non si ottiene sostituendo la discriminazione negativa – per sua natura odiosa e riprovevole con quella positiva – non meno iniqua e grave della prima. Sono altre le cose di cui le donne hanno bisogno. Sono altri i traguardi che vanno raggiunti. Cosa augurare alle donne in occasione di questo 8 marzo che è appena passato? Dipende dalle donne. Alle donne georgiane o moldave – come a quelle ucraine, del resto – di non finire sotto l’orbita russa, ossia di un regime per il quale le donne – salvo che non siano le mogli o le amanti di qualche “Paperone” o di qualche gerarca – servono solo a crescere numerosa prole e ad accudire gli uomini. Alle donne russe o bielorusse, iraniane o afghane, di tenere duro e di resistere, perché i loro oppressori sono più vicini alla fine di quanto non immaginino. E alle donne occidentali, che libere già lo sono, bisogna augurare di crescere nella libertà.

Bisogna che in questa parte di mondo si comprenda cosa significa e cosa implica davvero stare dalla parte delle donne: non vuol dire declinare i pronomi al femminile, quote rosa, sterili e inutili dibattiti sui ruoli di genere; significa più sicurezza nelle città, più centri anti-violenza, pene più severe per stupratori e partner violenti, più misure per mettere le donne nelle condizioni di non dovere scegliere tra lavoro e famiglia e, soprattutto, difesa di quei valori minacciati su più fronti, sia da chi vorrebbe importare i modelli autoritari e illiberali delle dittature o riportare in auge vecchi modelli; sia da chi, di dovunque venga, si sforza di far accettare e rendere normale – spesso col placet di chi si straccia le vesti per l’uguaglianza – la cultura dell’abuso e della sopraffazione propria delle realtà di provenienza. Ecco quello che le istituzioni dovrebbero fare perché le donne raggiungano la piena parità. Del resto, il grado di libertà di un Paese o di una civiltà si evince – come ha detto Sergio Mattarella – dal grado di condivisione tra uomini e donne della libertà medesima.

Aggiornato il 09 marzo 2023 alle ore 10:16