Italia pronta a uscire dalla nuova Via della Seta

Il Governo Meloni starebbe valutando di non rinnovare il protocollo d’intesa sancito con la Cina nel 2019 dall’allora Governo Conte Uno. L’Italia è infatti l’unico Paese del G7 ad aver sottoscritto il memorandum per partecipare al progetto di connessione ideato e proposto da Xi Jinping nel 2013, noto in Italia come “Nuova Via della Seta” o “Belt and Road Initiative”, il quale si rinnova automaticamente di anno in anno, salvo recesso unilaterale entro dicembre.

Secondo alcune indiscrezioni riportate da Bloomberg, la premier Giorgia Meloni – storicamente scettica e diffidente nei riguardi dell’avvicinamento alla Cina comunista di Xi – avrebbe già preso impegni in tal senso in occasione dell’incontro con lo speaker della Camera Usa, Kevin McCarthy, lo scorso 4 maggio. Gli Stati Uniti si erano sempre detti contrari all’adesione dell’Italia al protocollo con la Cina e la decisione del Governo Conte Uno di agire diversamente incrinò non poco i rapporti tra Roma e Washington, facendo dell’Italia una sorta di paria all’interno del G7 e della Nato. In questo frangente, le crescenti tensioni tra Stati Uniti e Cina per la questione di Taiwan – ma anche per il primato militare e tecnologico – avrebbero spinto Washington ad aumentare le pressioni sul Governo italiano per l’uscita dall’accordo.

Di sicuro ancora non ci sarebbe nulla ma, sempre secondo la testata americana, è altamente probabile che l’Italia scelga di rompere l’accordo con Pechino. Nel corso del bilaterale con McCarthy, infatti, Meloni avrebbe assicurato che l’Italia sarebbe pronta a compiere un simile passo, sebbene una decisione definitiva sia ancora da prendere: vanno infatti valutate tutte le possibili conseguenze, anzitutto economiche, di una simile scelta. Un altro segnale della volontà italiana di rompere con la “Nuova Via della Seta” sarebbe il mancato viaggio a Pechino della premier, che avrebbe dovuto tenersi proprio questo mese, su invito di Xi, ma che sembra non essere nemmeno in programma.

In occasione della stipula dell’accordo, il Governo “giallo-verde” si difese, sostenendo che si trattava di una grande occasione per l’Italia, che avrebbe visto aumentare il volume del suo export verso la Cina. Inutile dire che, a distanza di quattro anni, Giuseppe Conte e i suoi manutengoli avevano fatto male i conti: difficile che si sia trattato di un errore involontario, di eccessivo ottimismo o di disattenzione. Basterebbe dare un’occhiata ai dati per capirlo. Nel 2022, secondo i numeri presentati dalla Italy China Council Foundation, il valore dell’interscambio tra i due Paesi ha raggiunto i 73,9 miliardi di euro all’anno (+36,3 per cento), di cui 57,5 miliardi (+49 per cento) di importazioni dalla Cina in Italia e solo 16,4 per cento (-0,5 per cento) di esportazioni italiane in Cina. Peggio ancora i dati delle Dogane cinesi, per le quali l’interscambio tra i due Paesi nello stesso anno ammonterebbe a 77,8 miliardi di dollari (+5,4 per cento) di cui 50,9 (+16,8 per cento) di esportazioni cinesi verso l’Italia e 26,9 miliardi (-11 per cento) di esportazioni italiane verso la Cina. Comunque la si metta, il deficit commerciale italiano nei confronti della Cina è cresciuto, spinto dall’aumento delle esportazioni cinesi in Italia e dalla diminuzione di quelle italiane verso la Cina. Che affarone! Grazie al sopraffino fiuto per gli affari dei grillo-leghisti ci ritroviamo il mercato italiano ancor più invaso da merci cinesi sottocosto (e non per logiche di mercato, ma per manipolazioni del mercato stesso poste in essere dal regime comunista di Pechino) che danneggiano i produttori locali e l’export dei prodotti italiani ridotto al lumicino. Davvero un gran bel risultato.

Senza contare le conseguenze politiche che questo tipo di iniziativa ha avuto. Non si tratta solo del ruolo marginale cui l’Italia è stata relegata dai suoi partner occidentali in seguito a questa scelta. Non bisogna dimenticare che l’economia non può essere considerata separatamente dalla geopolitica: non quando si tratta coi regimi autocratici. Perché questi praticano un’economia di conquista: nulla a che vedere col mercato, con le logiche del profitto, con lo sviluppo o con il talento imprenditoriale. Per i cinesi, l’economia è un mezzo della politica: la progressiva conquista economica dell’Occidente è uno strumento – apparentemente pacifico, ma ancor più devastante delle bombe – per esportare la loro civiltà. Nel caso di Pechino, il famigerato “socialismo con caratteristiche cinesi”. Ecco perché quello di Conte è improbabile sia stato un errore: la sinofilia grillina è nota a tutti, come il disprezzo nei riguardi degli Usa e della Nato che ha spinto i Cinque Stelle a sposare la linea cinese – il pacifismo pro-Russia – anche sulla questione della guerra.

Il ritiro dell’Italia dal protocollo con la Cina, quindi, non è solo una necessità economica, ma anche di sicurezza nazionale e di strategia. Sarebbe l’ultimo tassello che Giorgia Meloni – dopo aver dimostrato agli Usa che possono di nuovo contare sull’Italia, la cui lealtà alla Nato non è più oggetto di discussione – dovrebbe inserire nel puzzle per dimostrare che il nostro Paese non subisce più la fascinazione dei regimi orientali e che, anzi, è pronto a fare di tutto per contrastarne l’avanzata. Anzi, una mossa simile da parte del Governo farebbe della Meloni una sorta di eroina negli Usa (poiché a Washington saprebbero di poter fare affidamento sull’Italia qualunque cosa succeda con la Cina) e farebbe definitivamente dell’Italia il primo partner a livello europeo – secondo solo alla Gran Bretagna – del “gigante a stelle e strisce”, ora che Francia e Germania hanno chiarito di non essere disposte a rischiare nulla per Taiwan e di non essere minimamente intenzionate a intraprendere la via del “decoupling” con la Cina.

Aggiornato il 13 maggio 2023 alle ore 10:11