Non è una guerra di religione ma si vuole farla apparire tale

Il dibattito sulla guerra in corso sembra aver polarizzato le posizioni della pubblica opinione. Premetto che chiunque compia atti sanguinari e indiscriminati contro civili è un barbaro assassino, non può essere un interlocutore e deve essere neutralizzato. Poi si dovrà fare luce sui vari inascoltati allarmi dell’imminente attacco e sulle troppe ombre del rapporto del governo Netanyahu con Hamas, volto a dividere il mondo palestinese e incagliare, permanentemente, il processo di pace, inviso ad entrambi. Evocare una guerra di religione tra mondo giudaico-cristiano e mondo musulmano non fa altro che dare forza a quella polarizzazione di cui hanno bisogno sia gli estremisti sia gli attori che agiscono per interessi economici o geopolitici.

Il conflitto ha radici profonde, anteriori alla nascita di Hamas e alla radicalizzazione dei movimenti islamisti – che, nei tempi lunghi della Storia sono fenomeno assai recente – che ha trovato nutrimento, sia nel conflitto palestinese, che nelle invasioni in Afghanistan e Iraq, da parte di Usa e alleati. Le parti in causa usano legittimare le proprie ragioni scegliendo, ad arte, il periodo storico dal quale far partire il proprio diritto. Nessuno dei due popoli aveva origine nelle terre tra il Giordano e il Mare: entrambi provenivano da altre regioni. La propaganda e la semplificazione – quella dei buoni di qua e dei cattivi di là, incluso, tra questi ultimi, chi declina l’invito a schierarsi acriticamente – trova facile terreno nella pigrizia dello studio della Storia, soprattutto quella contemporanea. Questo impedisce di discriminare verità e propaganda, torti e ragioni, sotto il profilo giuridico e storico, arrivando a sovrapporre concetti diversi come antisionismo e antisemitismo che, invece, per il laico, non possono non collocarsi in separato ambito, rispettivamente politico e religioso.

Da troppi anni la Comunità internazionale sembra essersi arresa di fronte a una situazione apparentemente irrisolvibile, eppure il futuro del conflitto giace nella comprensione del suo passato.

Il sionismo nasce sull’onda dello sdegno destato, nel 1894, dal caso Dreyfus. L’infuocato articolo “J’accuse” di Émile Zola su L’Aurore, che denunciava lo strisciante antisemitismo nelle società moderne, fa traballare il governo francese. L’idea di un JudenStaat per il “popolo errante” viene consacrata nel primo congresso sionista mondiale, tre anni più tardi, a Basilea.

Il sionismo trova il suo riconoscimento politico nella dichiarazione indirizzata dal ministro britannico Lord Arthur James Balfour al leader sionista britannico, Lord Lionel Walter Rothschild, nel 1917: l’appoggio alla creazione di uno Stato israeliano in Palestina, senza peraltro “pregiudicare i diritti civili e religiosi delle esistenti comunità non ebree in Palestina”.

La dichiarazione verrà richiamata in vari successivi accordi, a cominciare dalla Conferenza di Sanremo, indetta dalle nazioni vincitrici del Primo conflitto mondiale, per definire gli assetti post-bellici dello sconfitto impero turco ottomano, che avrebbe affidato alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina, promettendo una “Casa nazionale ebraica” e ribadendo che “i diritti e la posizione di altri settori della popolazione non debbono essere pregiudicati”.

All’insediamento del mandatario, la demografia della Palestina, in base al censimento del 1922, registra circa 750mila abitanti, in larghissima parte arabi musulmani, con solo un 10 per cento di ebrei e quasi la stessa percentuale di cristiani. Ingenti flussi migratori ebraici, soprattutto dall’Europa dell’Est, cominciano a sbilanciare il rapporto tra i diversi gruppi della popolazione. Nei 15 anni successivi scoppiano ripetuti disordini tra gruppi arabi ed ebrei. Il mandatario deve fronteggiare moti di protesta e lunghissimi scioperi. L’autorità britannica che, all’inizio del mandato, aveva favorito l’immigrazione ebraica, inizia a stringere i freni per contenere la rivolta della popolazione araba, alle prese con crescenti livelli di disoccupazione, dovuti, secondo le indagini delle commissioni parlamentari Shaw e Hope-Simpson, alla sempre più ridotta disponibilità di terre coltivabili.

Nel 1939, il terzo libro bianco di Malcolm MacDonald, impone, quindi, restrizioni alle quote di immigrati ammessi nei 5 anni successivi (75mila, inclusi quelli rilevati come illegali) per “consentire la capacità di assorbimento del Paese, a un rapporto massimo della popolazione ebraica di 1/3 della popolazione totale... Al termine del quale nessuna ulteriore immigrazione ebraica sarà autorizzata, salvo consenso degli arabi di Palestina”. Al 1945 la popolazione ebraica avrà già raggiunto il terzo del totale.

A seguito e contro l’irrigidimento della politica del mandatario, nascono, tra il 1940 e il 1948, le formazioni paramilitari ebraiche, Irgun e Lehi, con l’obiettivo di favorire l’immigrazione clandestina, cacciare gli inglesi dalla Palestina e distruggere centinaia di insediamenti arabi, per far posto ai nuovi coloni. Lehi, conosciuta anche come Banda Stern, è autrice di numerosi attentati e atti terroristici, sia contro la popolazione araba (il massacro di 100 civili a Deir Yassin) sia contro le autorità britanniche e internazionali (l’attentato terroristico al King David Hotel, costato un centinaio di vittime; l’assassinio di Lord Moyne al Cairo e del mediatore Onu, conte Folke Bernadotte, a Gerusalemme; l’attentato dinamitardo alla Dover House a Londra e quello contro l’ambasciata britannica a Roma).

Nel 1949, tutti i membri superstiti delle formazioni terroristiche ebraiche saranno amnistiati da Israele e mai perseguiti dalla giustizia internazionale. Uno dei capi della Banda Stern, Yitzhak Shamir, nel 1983 verrà eletto primo ministro del neocostituito Stato di Israele.

Il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale dell’Onu approva a maggioranza, la Risoluzione 181 che consiste nel famoso piano di ripartizione tra due Stati, uno palestinese e l’altro israeliano, mentre Gerusalemme sarebbe stata amministrata sotto egida internazionale. I palestinesi si oppongono al piano che consegna ad Israele il 55 per cento del territorio – nelle zone costiere e più fertili – pur avendo solo 1/3 della sua popolazione e solo la proprietà del 6 per cento di terreni edificati e agricoli. Anche le fazioni sioniste estremiste rifiutano l’accordo. Scoppiano disordini e la Risoluzione 181 non viene attuata.

Il 14 maggio 1948, Israele si autoproclama unilateralmente in Stato, mentre le autorità britanniche rassegnano il mandato e, il giorno successivo, rimpatriano le truppe.

Alla partenza degli inglesi, il 15 maggio del 1948, Egitto, Giordania, Iraq, Libano e Siria attaccano Israele che, respinti i nemici, ne approfitta per conquistare centinaia di insediamenti e città palestinesi. È la Nakba, in arabo “la catastrofe”: 700mila palestinesi vengono costretti ad abbandonare le proprie case e a cercare rifugio in campi profughi nei Paesi arabi confinanti, dove milioni dei loro discendenti continuano a vivere, anche oggi.

L’armistizio di Rodi del 1949 suggella la cessazione delle ostilità sulle nuove linee di confine tracciate dalla guerra.

Poche settimane prima, nel dicembre 1948, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Risoluzione 194, nella quale si commemora il mediatore Folke Bernadotte, ucciso dalla Banda Stern e si chiede il controllo dell’Onu su Gerusalemme e il ritorno dei profughi nelle loro case.

Nessuna delle due istanze sarà mai accettata da Israele: nel marzo del 1950, infatti, la Knesset vara la Absentee Property Law che legittima la confisca, senza ristoro né possibilità di reintegro, delle case e dei terreni di centinaia di migliaia di palestinesi, costretti dalla violenza della guerra e dalle persecuzioni, a fuggire.

Nel maggio del 1967, scoppia la guerra dei 6 giorni che si conclude con l’occupazione israeliana delle alture di Golan, della Striscia di Gaza, della Cisgiordania, del Sinai e di Gerusalemme Est: altre centinaia di migliaia di civili fuggono, cercando scampo nei Paesi confinanti.

Il 22 novembre del 1967, le Nazioni Unite approvano all’unanimità la Risoluzione 242 che, nella sua premessa, enuncia l’inammissibilità dell’acquisizione di territori per mezzo di guerre e la necessità di lavorare per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, affinché ogni Stato possa vivere in sicurezza. La Risoluzione prevede il ritiro delle forze di occupazione di Israele e la cessazione delle ostilità da parte di tutte le forze in campo. Intanto, nei territori occupati, il governo di Israele continua ad autorizzare nuovi insediamenti di coloni. Le rivolte sono all’ordine del giorno. Inizia la stagione del terrorismo palestinese in giro per il mondo, che continua fino ai giorni nostri: decine di dirottamenti, attentati, stragi. Settembre nero è autore dell’azione terroristica, durante le Olimpiadi estive di Monaco.

Dopo la guerra dello Yom Kippur, il 6 ottobre 1973, Menachem Begin e Anwar al-Sadat accettano l’invito del presidente americano Jimmy Carter ad avviare colloqui di pace a Camp David. Ne nascono due storici accordi che sanciscono il primo riconoscimento di Israele da parte di uno Stato arabo e la normalizzazione dei rapporti bilaterali, in contropartita al ritiro dal Sinai e alla rimozione degli insediamenti ivi realizzati, oltre che all’impegno a disoccupare la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, affidandole ad amministrazioni autonome.

Nel 1980, la Knesset proclama Gerusalemme, unita e indivisa, capitale di Israele. Decisione subito censurata, in quanto contraria al Diritto internazionale, dalla Risoluzione 478 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (approvata senza voti contrari e con la sola astensione degli Usa).

Nei primi anni Ottanta, da una costola dei Fratelli Musulmani, nasce una organizzazione terroristica, Al-Jihad, che ha tra i suoi obiettivi le rivendicazioni palestinesi. Considera il presidente egiziano, Anwar al-Sadat, un traditore della causa araba e ne organizza l’assassinio.

A dicembre del 1989, un incidente, nel quale un blindato israeliano uccide 4 lavoratori palestinesi, fa scoppiare la prima Intifada (in arabo, sollevazione), una serie di rivolte e moti violenti. Dura fino al 1993 ma altre due Intifada seguiranno negli anni a venire: tutte represse dalle forze di difesa israeliane. Dalle proteste emerge la fazione più radicale e violenta del movimento palestinese, ossia Hamas.

L’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, rigetta gli accordi di Camp David ma, 15 anni dopo, nel 1993, il suo leader Yasser Arafat sottoscrive, insieme a Yitzhak Rabin, la Dichiarazione di Principio di Oslo, nella quale, palestinesi e israeliani, si danno reciproco riconoscimento, Gaza e la Cisgiordania vengono liberate dalla presenza dell’esercito israeliano e poste sotto l’amministrazione della neonata Anp, Autorità Nazionale Palestinese. Vengono rinviate a futuri negoziati le parti più importanti, riguardanti i confini del futuro Stato palestinese, lo status di Gerusalemme, lo sgombero delle colonie abusive e la sorte delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi.

La carta geografica del territorio amministrato dall’Anp, da Oslo in poi, diventa sempre più frammentata come un patchwork: 165 pezzetti, senza contiguità territoriale, enclave spesso cinte da muri e filo spinato e circondate da checkpoint militari e nuovi insediamenti israeliani. Il 60 per cento della Cisgiordania, la cosiddetta area C, è sotto il controllo israeliano e inaccessibile ai palestinesi che non vi abitino. La popolazione palestinese si sente tradita da Mahmoud Abbas, detto Abu Mazen, leader del partito Fatah e presidente della Anp, che inizia a perdere progressivamente l’appoggio popolare. Gli Accordi di Oslo non piacciono anche a molti in Israele: il 4 novembre 1995 Rabin paga con la vita la sua firma sulla Dichiarazione, ucciso da un estremista sionista.

Nel 2006, Fatah perde le elezioni e vince Hamas (rispettivamente 41 contro 43 per cento). Le due fazioni entrano in guerra. A Doha, concordano la cessazione delle ostilità e che Hamas amministri Gaza, mentre Abu Mazen continui a presiedere l’Anp in Cisgiordania, in attesa di nuove elezioni (che da quella data non vengono più indette).

Nel 2012, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva la Risoluzione 67/19 per il riconoscimento della Palestina come Stato osservatore non membro, ossia senza diritto di voto. Si esprimono a favore 138 Paesi. Votano contro in 8: Usa, Canada, Israele, Repubblica Ceca, Micronesia, Nauru, Palau, e Isole Marshall. Si astengono tutti gli altri Paesi europei e l’Australia.

Donald Trump, dopo il faux pas del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele – fatto che aveva suscitato accese reazioni tra i palestinesi – tenta di ricucire, riportando arabi e israeliani al tavolo negoziale. Nel 2020, gli Accordi di Abramo sanciscono la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati e Bahrein. Il “piano del secolo” propugnato dal presidente Trump riporta in auge il progetto “due popoli e due Stati” insieme alla garanzia che “nessun palestinese o arabo sarà sradicato dalla sua casa”, un linguaggio che sembra però cristallizzare lo status dei, contestati, insediamenti illegali in Cisgiordania in cui, ormai, vivono oltre 700mila coloni. Nella conferenza, prima del varo del piano, Bibi Netanyahu e l’ambasciatore Usa, David Friedman, dichiarano di aver avuto il via libera da Washington per l’annessione dei territori occupati. La reazione di Trump è furiosa con i due, ma soprattutto con Netanyahu: “Mi sono arrabbiato e l’ho fermato, perché questo ha superato davvero il limite”.

La questione dei confini della Palestina, dello status di Gerusalemme Est e del rientro dei rifugiati nelle loro proprietà restano i principali nodi da risolvere per arrivare a una soluzione giusta e duratura di un conflitto che dura da troppi anni. Fino ad oggi non è emersa sincera, reale, volontà di farlo. Come dicevamo all’inizio, destoricizzare giudizi e situazioni, ossia valutarli al di fuori del loro contesto storico, può servire alla propaganda e a cercare giustificazioni morali, ma non a riprendere il percorso del negoziato verso la pace.

Aggiornato il 06 novembre 2023 alle ore 13:42