Iran: la violenza sessuale come arma di oppressione di massa

lunedì 26 febbraio 2024


Dopo la Seconda guerra mondiale il fenomeno degli stupri di massa ha avuto un notevole incremento, assumendo i connotati, non più di un “fattore collaterale” legato al concetto di “bottino di guerra”, ma rendendo le donne – e non solo – vittime intenzionali dei conflitti. Solo dopo il 1991, data del conflitto nell’ex Jugoslavia, è emerso il concetto di stupro come “strumento bellico”. Ormai in ogni contesto dove gli scontri si perpetrano le testimonianze dirette scoprono la specificità e la sistematicità di tale fenomeno, tanto che nel 2008 l’Onu ha riconosciuto lo “stupro come crimine di guerra, crimine contro l’umanità o come atto costituente reato di genocidio”. Il riconoscimento dello stupro, come pratica applicata in modo sistematico, ha così politicizzato il fatto, includendolo nell’ambito di una reale strategia politica. Quindi la logica dell’uso del supplizio sessuale contro le donne è ora applicata come condotta militare, e il 7 ottobre ha concesso in diretta pietosamente questa modalità offensiva. Ma tale perverso “sistema” oppressivo in Iran si manifesta, non per questioni etniche o politiche o in schieramenti internazionali antagonisti, ma direttamente sui civili, dove il Regime degli Ayatollah utilizza la violenza sessuale per opprimere le ribellioni.

Le donne iraniane assoggettate all’abbigliamento della “regola” musulmana, con connotati sciiti, obbligate a viaggiare solo se accompagnate da un familiare maschio, dove comunque è negata la libertà di muoversi da sole, limitate dalle “consuetudini” e da norme “patriarcali”, interdette a partecipare alla maggior parte degli eventi pubblici, lottano per confermare la loro esistenza contro la volontà degli Ayatollah, i quali agiscono per oscurarne a tutti i costi la “insidiosa” immagine, colpendo preferibilmente la loro sfera sessuale. Però le donne iraniane, che nel loro dna comportamentale hanno anche tracce di libertà, si destreggiano in un contesto complesso dove sono presenti come ricercatrici, attrici, atlete. E dove si innamorano – e con modalità anche non particolarmente invasive – cercano di spezzare queste catene, consce del “pedaggio” da pagare. Tuttavia, molto spesso scontano enormi “punizioni” solo per aver tenuamente osato non osservare le imposizioni di regime.

Comunque, dal settembre del 2022, data dell’uccisione di della studentessa Mahsa Amini, le donne iraniane sono state il motore trainante di una rivolta, espressa con varie modalità, che sta scuotendo la società e il Governo teocratico, il cui slogan “donne, vita, libertà” continua a riecheggiare in ogni città del Paese. Ricordo che le giornaliste Niloufar Hamedi, 31 anni e Elaheh Mohammadi, 36 anni, arrestate nel settembre del 2022 solo per aver indagato sulla morte di Mahsa Amini, hanno trascorso 17 mesi nel famigerato carcere di Evin a Teheran. Poco dopo il rilascio, le due giornaliste si sono presentate senza il hijab, rischiando ulteriori procedimenti legali.

L’articolazione di tali condanne si dipana sui soliti ambiti, che in certi regimi sono preghi di sospetti e di combutte con i servizi segreti nemici, in questo caso statunitensi; ma in realtà sono alibi per giustificare le persecuzioni. Non a caso, a Niloufar Hamedi, collaboratrice del quotidiano riformista Shargh, sette anni di carcere le sono stati comminati perché sospettata di cooperare con gli Stati Uniti, più cinque anni di reclusione per complotto contro la sicurezza del Paese e un anno per propaganda contro la Repubblica islamica. Si era recata all’ospedale dove Mahsa Amini era rimasta in coma per tre giorni prima di morire. Ma anche sotto gli Ayatollah spesso accade che ci sia un prezzo da negoziare; infatti, le due giornaliste sono state liberate dietro pagamento di una onerosa somma in attesa del processo d’appello.

Tuttavia, l’arma di repressione più pesante del regime si esplica una volta che le “indomite donne iraniane” vengono arrestate. Secondo la segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, queste ragazze vengono quasi sempre stuprate dalla Polizia morale o da chi procede all’arresto, sia in carcere che durante il trasporto verso le prigioni. E anche nei luoghi isolati dove vengono condotte prima di convogliarle alle galere. Eppure le violenze non si perpetrano solo sulle ragazze, ma anche sugli adolescenti e su gli uomini, anche questi stuprati e malmenati. Insomma, le forze di sicurezza e le autorità iraniane utilizzano la violenza sessuale come strumento chiave del proprio arsenale per reprimere manifestazioni e opposizione. Ciononostante, non escluderei che un facile e gratuito appagamento possa essere l’ulteriore sprone per menti perverse e deviate.

L’Ong per i diritti umani afferma di aver documentato queste scellerate violenze, fatte anche con oggetti, e tramite sodomia, su molte decine di donne, ma anche su decine di uomini e diversi minori, tutte verificatesi a seguito degli arresti avvenuti durante le proteste iniziate dall’autunno 2022. Quindi, si parla di stupri di gruppo sulle vittime dove le Guardie della rivoluzione hanno ruoli specifici. Perversioni che hanno nulla a che fare con “regole” scritte ma che fanno riferimento solo a sadismo e ad atteggiamenti maniacali, mascherati dall’osservanza di chissà quale dettame religioso. Nel quadro evidente di uno spasmo di potere che sta affogando il regime degli Ayatollah.

Tra l’altro, la stragrande maggioranza delle vittime ha dichiarato ad Amnesty International di non aver esposto denuncia dopo il rilascio, per paura di subire ulteriori ritorsioni e violenze. Alcuni, tuttavia, hanno avuto il coraggio di denunciare, ma subito obbligati a ritirare l’accusa dopo che le forze di polizia avevano minacciato di sequestrarli nuovamente o rapire o assassinare i loro familiari.  Insomma, una assoluta impunità delle forze di sicurezza. La settimana scorsa una ragazza è stata aggredita in un autobus da un’altra donna perché non indossava il hijab; chiesto concitatamente spiegazione, la ragazza aggredita si è sentita rispondere che “il velo porta libertà”. Una concezione della libertà decisamente ardita. Una immagine non speculare ma con i medesimi effetti sul mondo femminile si sta celebrando in Sudan da quasi un anno.


di Fabio Marco Fabbri