Un’italiana in America e la dittatura woke

“A New York ora devo scusarmi in continuazione per essere bianca, quindi privilegiata e incapace di capire le minoranze etniche. Sono catalogata dalla parte degli oppressori”. Questo il passaggio di un colloquio apparso sul Corriere della Sera. A parlare è una 42enne, arrivata negli Stati Uniti dal Veneto. Negli Usa lavora dal 2009. In Italia, dice, “mi considero una progressista, perfino radicale”. Eppure, ora, ha problemi a riconoscere l’America: “Passo il mio tempo a camminare sulle uova, a dribblare le regole della cultura woke, qualsiasi cosa dica o faccia può essere condannata come una micro-offesa rivolta contro afroamericani o latinos”.

La donna si iscrive a un Master della Columbia University. Vuole diventare assistente sociale. Eppure, racconta, per le prove di ammissione deve scrivere un saggio “in cui anticipavo quale sarà il mio impegno nel razzismo anti-black, perché è un dogma che il vero razzismo è solo quello di noi bianchi contro i neri. Sono stata esclusa dal corso a cui ero più interessata, sull’assistenza ai tossicodipendenti, perché i non-bianchi hanno la precedenza”. Non solo: “Nella settimana iniziale del Master dedicata all’orientamento dei nuovi iscritti, a noi studenti bianchi è stato chiesto di scusarci con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori. E devo aggiungere questo dettaglio: perfino una studentessa afroamericana mi si è avvicinata per confessarmi il suo imbarazzo, lei stessa trovava quella situazione mortificante”.

Inoltre, la 42enne confessa che ogni due settimane “una bianca come me deve partecipare a una riunione di white accountability (responsabilità bianca)”. Ovvero “due ore con una persona che ci interroga per farci riconoscere le nostre micro-aggressioni verso i neri e chiederci un pentimento”.

Aggiornato il 04 marzo 2024 alle ore 17:33