L’industria bellica russa, che il Cremlino presenta da anni come baluardo di autosufficienza tecnologica, poggia in realtà su fondamenta sorprendentemente fragili. Dietro l’immagine di un Paese capace di produrre in massa missili, carburanti aeronautici e materiali per protezioni balistiche, si nasconde una dipendenza strutturale da componenti chimici e catalizzatori importati, spesso provenienti proprio da quelle economie che Mosca considera ostili. La guerra contro l’Ucraina ha accelerato i consumi e ampliato le necessità di approvvigionamento, rivelando un paradosso imbarazzante: la macchina militare russa funziona solo grazie ai flussi commerciali di Stati che, dichiarandosi “neutrali”, chiudono un occhio sui reali utilizzi finali dei loro prodotti.
Nelle filiere della petrolchimica e dei carburanti speciali, la vulnerabilità è evidente. Senza catalizzatori di raffinazione avanzati, additivi ad alta purezza, resine cationiche e una lunga lista di reagenti, le raffinerie russe non riuscirebbero a produrre né il carburante per i caccia né quello, ancor più delicato, per i missili da crociera. Il combustibile conosciuto come decilin-M, usato in diversi vettori russi, non può essere sintetizzato con tecnologie esclusivamente domestiche: richiede catalizzatori e resine sviluppate da aziende occidentali o dai loro partner asiatici. Mosca continua a sbandierare la “sostituzione delle importazioni” come panacea patriottica, ma la realtà di laboratorio e di produzione industriale è impietosa: senza materiali che non è in grado di produrre da sola, la Russia sarebbe costretta a fermare intere linee di assemblaggio di missili nel giro di settimane. Il quadro è altrettanto compromesso nel settore dei polimeri industriali. Polietilene, polipropilene, fibre ad alta resistenza per giubbotti antiproiettile e componenti plastici utilizzati nei sistemi d’arma moderni dipendono tutti da catalizzatori di produzione estera. La loro sostituzione non è questione di “buona volontà”: richiede decenni di ricerca e infrastrutture specializzate che la Russia non ha sviluppato, preferendo affidarsi per anni all’importazione mentre proclamava al mondo la propria autonomia tecnologica. Oggi queste dipendenze la espongono a un ricatto inverso: se i fornitori chiudessero davvero i rubinetti, la catena militare-industriale russa collasserebbe.
E tuttavia i rubinetti non si chiudono. Le sanzioni occidentali, pur severe, si rivelano porose come una rete da pesca. Stati come Cina, India e Iran sono diventati hub cruciali per la riesportazione verso la Russia di reagenti e attrezzature, spesso prodotti da aziende europee o americane, che viaggiano attraverso triangolazioni commerciali difficili da intercettare. Le rotte passano per gli Emirati, per l’Asia centrale, per società di comodo talvolta create in pochi giorni. Non si tratta di semplici “evasioni creative”, ma dell’infrastruttura globale che permette alla Russia di continuare a bombardare obiettivi civili, incluse città come Kharkiv o Odesa, con missili che non esisterebbero senza quella chimica importata.
La responsabilità, dunque, non ricade soltanto su Mosca. È impossibile ignorare il ruolo di quei governi che, in nome del profitto o della convenienza geopolitica, tollerano esportazioni che alimentano un’aggressione armata in piena Europa. Ogni volta che un catalizzatore attraversa un confine con destinazione finale russa, un pezzo dell’ecosistema militare che colpisce Kyiv e altre città ucraine prende forma. L’indifferenza di questi Paesi non è neutrale: è complicità, anche quando si veste di linguaggio diplomatico. La retorica russa sull’autosufficienza resta così una facciata. Sotto, si intravede un apparato produttivo che sopravvive solo grazie alla chimica occidentalizzata che Mosca sostiene di poter sostituire ma che non è in grado di replicare. E finché il mondo continuerà a considerare certi beni “non letali” o “dual use”, ignorandone l’impatto diretto sul campo di battaglia, la Russia avrà i mezzi per prolungare una guerra che devasta un Paese sovrano e destabilizza l’intero continente. La debolezza tecnologica del Cremlino, invece di renderlo meno aggressivo, diventa paradossalmente la leva attraverso cui regimi compiacenti e governi riluttanti gli permettono di mantenere la sua capacità distruttiva.
(*) Docente universitario di Diritto internazionale e normative per la sicurezza
Aggiornato il 10 dicembre 2025 alle ore 10:21
