Giù le mani dal junk food

Chi vive di carne, formaggio fuso, bacon, ketchup, maionese, salsa piccante e coca-cola, rigorosamente extralarge, non accetterà mai compromessi. Lo stato italiano tasserà il cibo spazzatura e i cittadini liberi dei fast food sono pronti a insorgere. Lo annuncia il ministro Renato Balduzzi, difendendo una scelta che secondo lui andrà a tutelare la salute, ma che che suona più come l'ennesimo scacco alla libertà individuale. Ci dicono cosa mangiare e se continuano così un giorno finiranno per inserire il vincolo costituzionale del jogging mattutino, con annessa aliquota. Non abbiamo bisogno di uno stato dottore che ci guidi anche nella dieta. La salute, almeno quella, deve restare affar nostro.

Il junk food, il cibo spazzatura, ha radici profonde e una storia che riassume la nascita, l'espansione di un popolo e di un'era, quella americana. È l'emblema dello stato minimo, del libertarismo, della forza motrice dell'economia reale lasciata libera di crescere. Se il farmacista John Pemberton nel 1886 fosse stato braccato dalle agenzie federali di Washington, molto probabilmente non avrebbe mai creato il mito della Coca-Cola. E se i fratelli Richard e Mac McDonald avessero dovuto fare i conti con le barriere salutiste di qualche laboratorio di ricerca, non ci avrebbero mai offerto i dieci strati del Big Mac. 

L'industria del fast food nasce nel sud della California. Un banchetto di hot dog e hamburger che marcia su e giù per i marciapiedi di una piccola cittadina. È l'idea poco più ambiziosa di uno snack, uno spuntino "al volo", la merenda con gli amici. Questa è l'America del secondo dopoguerra. La storia di questa rivoluzione riparte dove si erano fermati i personaggi del film Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. È la conquista della modernità dopo una vita di scommesse appese al Whistle Stop Cafè e alle insidie della grande depressione. Questa è soprattutto la vita di Carl N. Karcher uno dei pionieri del fast food e, a ottantuno anni, l'ultimo dei suoi padri fondatori ancora in vita. 

La sua carriera parte quasi per caso a metà degli anni quaranta. Karcher nasce nel 1917 in una fattoria vicino a Upper Sandusky, Ohio. Suo padre è proprietario di una piccola azienda agricola, un tipo burbero, uno di quegli uomini che sulla costa chiamano bifolco, perché non ha imparato le buone maniere. Era solito ripetere ai quattro figli: «La fortuna si guadagna lavorando sodo». Carl lo prende in parola e senza pensarci troppo abbandona la scuola dopo la terza media. Non è abituato a cercare scorciatoie, mezze verità e odia barare a carte. Conosce bene la fatica. Lavora dalle dodici alle quattordici ore al giorno nella fattoria di famiglia. Sa che quello è il suo dovere e al destino non chiede nulla. 

È il 1937 quando uno zio gli chiede di raggiungerlo in California. Ha vent'anni e quarantasei di piede. È grosso, un ragazzo forte che non ha mai fatto un passo lontano da casa. Arriva ad Anaheim dopo una settimana di viaggio e trova una cittadina immersa tra aranceti, piantagioni di limoni e casali in stile spagnolo. Per Carl quello è il paradiso. Qui incontra una giovane attraente, Margaret Heinz, che sposerà qualche anno più tardi. Insieme si trasferiscono a Los Angeles. Carl consegna il pane al mattino presto per 24 dollari la settimana. Serve ristoranti, mercati e si stupisce per il gran numero di panini da hot dog che riesce a vendere. Compra così un banco su Firenze Avenue, chiedendo 331 dollari di prestito alla Bank of America. Dà come garanzia la propria auto e convince sua moglie a dargli quindici dollari in contanti. «Sono finalmente in affari per conto mio», pensò dopo l'acquisto del carrettino. «Ora dipende tutto da me». Cinque mesi dopo gli Stati Uniti entrano in guerra. E per le le tasche di Karcher è un vero affare. Il banco si ferma spesso proprio di fronte la fabbrica della Goodyear che in quegli anni quadruplica produzioni e occupati. Ben presto ha abbastanza soldi per comprare un secondo banco, che Margaret porta avanti praticamente da sola mentre la figlia dorme in macchina nelle vicinanze.

Il sud della California in quegli anni crea un nuovo stile di vita che ruota intorno all'automobile. «Le persone sono così pigre», dichiarò Jesse G. Kirby, il fondatore della prima catena di drive-in in America. Il sistema è molto semplice: una cameriera in abiti provocanti che consegna le ordinazioni direttamente al tuo finestrino. Il drive-in si adatta perfettamente alla cultura giovanile emergente. Donne, motori e una nuova generazione pronta a esportare quel modo di vivere. Il 16 gennaio 1945, il giorno del suo ventottesimo compleanno, Carl ha già quattro punti vendita di hot dog e sta per aprire il suo primo drive-in. È il miracolo degli anni Cinquanta. L'economia del sud della California e di mezzo mondo schizza in alto, un benessere che sembra non finire mai. La piccola Anaheim intanto cambia e diventa uno dei suburbs di Los Angeles. Qui la Walt Disney compra migliaia di ettari di aranceti e inizia a costruire ciò che passerà alla storia come Disneyland. 

Poi Carl sente parlare di un ristorante a una cinquantina di miglia fuori città. Vende hamburger per soli quindici centesimi. È il futuro, pensa. I fratelli Richard e Mac McDonald gestiscono da diversi anni un drive-in di successo a San Bernardino, ma sono costantemente alla ricerca di qualcosa di nuovo. Nasce McDonald's. Eliminano quasi due terzi delle voci del menu, si sbarazzano di ogni elemento che implichi l'uso di cucchiaio, coltello o forchetta. Solo hamburger e cheeseburger, niente vetro per i bicchieri, niente piatti se non di plastica. Mettono in piedi un laboratorio professionale in cui la forza principale risulta il metodo di preparazione. I principi ispiratori della catena di montaggio della fabbrica vengono applicati al funzionamento di una cucina. Tutti i panini vengono venduti con gli stessi condimenti: ketchup, senape, cipolle e due sottaceti.  I fratelli McDonald si rivolgono ora alle famiglie operaie di San Bernardino. Finalmente tutti possono permettersi il ristorante.

Dopo quella visita, Carl Karcher decide di aprire il suo primo fast food e il business esplode in tutto il paese. I costi di start up sono bassi e chiunque sia disposto a lavorare sodo ha un'opportunità di successo. William Rosenberg apre un negozio di ciambelle a Quincy, Massachusetts, che avrebbe chiamato Dunkin' Donuts. Glen Bell, un ex marine, mangia al McDonald's e decide di copiarlo, cucinando però messicano. Il suo primo Taco Bell apre nel 1962. Tra il 1968 e il 1974, il numero di ristoranti McDonald's triplica e Wall Street inizia a investire nella società. La competizione nel sud della California è feroce. Uno ad uno, i vecchi drive-in chiudono. Carl Karcher apre ristoranti su e giù per lo stato e nel 1976 controlla la più grande catena privata di fast food del paese. Il suo soprannome è Mr. Orange County. Gli anni Ottanta rappresentano il declino per la catena Carl Jr. L'azienda viene quotata in borsa, ma i nuovi locali aperti in Texas non vanno bene. Il valore delle azioni crolla e una serie di operazioni imprudenti lo portarono al collasso. Karcher non si abbatte, condivide l'ottimismo del suo vecchio amico Ronald Reagan: «La mia filosofia di vita è non mollare mai. La parola impossibile non dovrebbe esistere. Abbiamo avviato una rivoluzione che non si fermerà mai». 

Il fast food è questo tempo che non si può fermare. E chi pensa che sia solo un panino e una bibita sbaglia di grosso. È un pezzo di noi, della nostra identità, un luogo che racconta tante storie e che parla lingue diverse e che permette a ciascuno di riconoscere la propria. Sono la prova che la relatività di Einstein si applica oltre l'universo e arriva dritta all'anima. È il ricordo dei tempi passati, degli incontri fatti per caso e rigorosamente di fretta, delle serate fuori dal cinema, mentre vi fermate a studiare le facce del pubblico che esce dall'ultimo spettacolo. O quando passate quasi un'intera notte fuori alla ricerca di un cheeseburger qualsiasi, solo per tenere impegnato lo stomaco prima di crollare sul letto. Ma il junk food, quello che definite "spazzatura", è anche lavoro e benessere. Qualcosa per cui non servono anni di studio, ma una volontà di ferro. È l'hardcore del capitalismo reale. Cresce e si diffonde in ogni angolo del mondo semplicemente perché funziona, perché è utile ovunque: stadi, aeroporti, centri commerciali, università, scuole elementari, navi da crociera, treni, stazioni di servizio. Non fa differenza. 

Il pasto veloce è l'America. La sua ascesa corre parallela ai grandi cambiamenti economici e sociali che ha affrontato l'Occidente negli ultimi settant'anni. È qui che le donne hanno trovato il primo impiego per pagare le bollette e per mandare avanti la famiglia. Nel 1975, circa un terzo delle madri americane con figli piccoli lavora come cuoca o cameriera in uno di questi locali, mentre milioni di giovani riescono a finanziarsi gli studi proprio grazie al lavoro part-time offerto dalle grandi catene della ristorazione. È una risorsa. Salari bassi che garantiscono grande mobilità al mercato del lavoro: i contratti spesso non superano i sei mesi. I dipendenti dei fast food sono ossigeno per l'economia. Sono soprattutto adolescenti e non a caso la maggiore crescita del settore si è registrata con il boom demografico degli anni Settanta. Oggi questo tipo di lavoro è diventato un rito di passaggio, un primo lavoro appena esci di casa e approdi all'università. Altro che spazzatura: è tassare il cibo spazzatura ad essere junk politics.

Aggiornato il 28 novembre 2022 alle ore 02:44