Le tecnologie digitali ai tempi del Coronavirus

Negli ultimi decenni, la scienza, la medicina, la tecnologia hanno fatto passi da gigante migliorando il benessere e le aspettative di vita: ogni giorno viene annunciata una scoperta, una terapia rivoluzionaria, una soluzione salvavita. Ci siamo affidati alla bellezza straordinaria di queste discipline, nonostante i rumori inutili di una minoranza appartenente al movimento No-vax e a quello della decrescita felice. In questi mesi, il nemico “invisibile” Covid-19 mostra la sua potenza distruttiva a livello globale e sta stravolgendo il nostro modo di vivere, di lavorare e di produrre. Ma è altrettanto vero che le tecnologie digitali stanno aiutando molte persone in casa (in quarantena o in autoisolamento) a svolgere normalmente le attività attraverso il lavoro agile, la formazione a distanza, gli acquisti online e le videoconferenze tramite piattaforme digitali. I nostri bisnonni e i nostri nonni, al contrario, non hanno avuto questo privilegio. Per quanto tempo dureranno le misure di contenimento e di isolamento previste dai decreti governativi di queste settimane? Fino a quando la scienza non avrà individuato la cura, rimarremo nel limbo per diversi mesi e non potremo fare altro che seguire le principali precauzioni che si adottano da sempre durante le epidemie, rendendoci consapevoli che le nostre secolari conoscenze scientifiche non sono sufficienti.

Il nostro sistema sanitario è impegnato in prima linea per salvare la vita di tante persone contagiate dal virus. I limiti del sistema, però, sono sotto gli occhi di tutti: il personale medico-sanitario, le apparecchiature per la terapia intensiva e la rianimazione e le strutture ad hoc e quelle di assistenza intermedia o di quarantena sono insufficienti. E il Decreto “Cura Italia” approvato (in questi giorni) dal Governo, prevede uno stanziamento di quasi 4 miliardi di euro. Troppo pochi. E le tecnologie digitali basate sull’intelligenza artificiale e sui big data sono in grado di contrastare il diffondersi del contagio e di garantire l’esercizio di una normale vita lavorativa ed economica? Pensiamo a quello che sta succedendo in Corea del Sud, a Singapore, a Hong Kong e a Taiwan, dove il numero di decessi e di contagi è proporzionalmente inferiore rispetto a quello del nostro Paese. In particolare, il ministero dell’Interno e della Sicurezza della Corea del Sud (51 milioni di abitanti –  casi di contagio 8320, decessi 81 – dati Oms, 17 marzo 2020) ha sviluppato un’applicazione per smartphone in grado di monitorare i cittadini in quarantena: migliaia di persone nel lockdown del coronavirus vengono monitorate per rilevare i sintomi, per assicurarsi che restino a casa e che non diventino dei “superdiffusori” del virus, per tenere traccia della loro posizione (attraverso il Gps) e per assicurarsi che non stiano rompendo la quarantena. Inoltre, tale applicazione si unisce a un elenco di altre misure tecnologiche lanciate per interrompere la catena di contagio in Corea del Sud. Altro che autodichiarazione di carta utilizzata in Italia.

Il metodo coreano è stato adottato anche da un altro paese tecnologicamente avanzato come Israele che sta reagendo positivamente al virus: su quasi 9 milioni di abitanti sono stati registrati 250 casi di contagio e zero morti (dati Organizzazione mondiale della sanità, 17 marzo 2020). E in Italia? Molti potrebbero scandalizzarsi perché la rilevazione dei dati a tappeto dei contagiati con tracciamento dei cellulari e riconoscimenti facciali, sul modello adottato dalla Corea del Sud, violerebbe la privacy dei cittadini. E allora mi chiedo: tutte le volte che le compagnie telefoniche o quelle energetiche ci chiamano ininterrottamente al cellulare o al telefono fisso per bombardarci di offerte promozionali (a volte ingannevoli), non è violazione della privacy? E potrei continuare con altri casi assurdi. Penso che sia necessaria una normativa europea specifica e di emergenza che bilanci la protezione dei dati personali con gli altri diritti fondamentali come la salute (non solo individuale, ma collettiva) in grado di consentire alle tecnologie digitali di contrastare fenomeni eccezionali che impattano negativamente sulle persone. Quindi, i diritti possono, in contesti emergenziali, subire limitazioni anche incisive nell’interesse della salute pubblica.

Aggiornato il 19 marzo 2020 alle ore 12:17