Marò: e se i veri pirati fossero gli indiani?

Trattengono con la forza una nave straniera chiedendo un cospicuo riscatto per il suo rilascio. E se i veri pirati fossero gli indiani? Una mera provocazione, certo. Eppure, non si può non notare come il comportamento dell'India mostri molte curiose affinità con quella fattispecie di crimine internazionalmente ricompreso sotto la definizione di pirateria. Vediamo perché. 

Dal 15 febbraio scorso la petroliera italiana Enrica Lexie si trova sotto sequestro per ordine del tribunale di Kerala. Un provvedimento adottato a seguito del presunto omicidio di due pescatori indiani che avrebbe commesso il team di fucilieri di marina del battaglione San Marco imbarcato sulla petroliera come task force antipirateria. La Corte di Kerala ha poi richiesto agli armatori italiani "F.lli D'Amato" un cospicuo pagamento, a titolo risarcitorio  a seguito della morte dei due indiani. Conditio sine qua non, questa, per acconsentire alla partenza della petroliera dal porto di Kochi, dov'è attualmente ormeggiata. Le ultime richieste pecuniarie dei giudici ammontano a circa 30 milioni di rupie, l'equivalente di 430mila euro. Ma la cifra continua a lievitare di giorno in giorno. Eppure, nessuna sentenza ha accertato la responsabilità (e neppure il benché minimo coinvolgimento) della nave nell'uccisione dei due pescatori. Il sospetto di un comportamento "piratesco" delle autorità indiane appare quindi non del tutto campato in aria.

Ma andiamo avanti. La pirateria è codificata dalla Convenzione Onu di Montego Bay, siglata nel 1982. La Convenzione ripercorre, con alcune modifiche, i dettami della Convenzione di Ginevra del 1958. Si intende per pirateria «ogni atto di violenza illegittimo di detenzione e ogni depredazione commessi dall'equipaggio o dai passeggeri di una nave o di un aeromobile privati, a scopo personale, e a danno: in alto mare, di un'altra nave, altro aeromobile, o di persone o beni a bordo di questi; in luoghi non sottoposti alla giurisdizione di uno Stato, d'una nave, o di un aeromobile, o di persone o beni». In breve: le disposizioni dei giudici indiani non rientrano nella fattispecie. Ciononostante le somiglianze tra il dettato e il caso Enrica Lexie solleticano quantomeno un dubbio: gli indiani sarebbero pirati, se non de iure, almeno de facto?

Abbiamo posto la stessa domanda al professor Edoardo Greppi, professore ordinario di Diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Torino. «La qualificazione del comportamento delle autorità indiane come atto di pirateria de facto non ha alcun fondamento giuridico» spiega il professor Greppi. «Il problema è, fin dall'inizio della vicenda, semplicemente quello della giurisdizione. La pretesa italiana è fondata: per un fatto avvenuto in acque internazionali la giurisdizione è quella italiana». Come risolvere lo stallo? «Da questo punto in avanti, tutto dipende da quanto i magistrati indiani saranno disposti a riconoscere e applicare le norme internazionali sull'immunità dalla giurisdizione. Il resto - conclude il docente - attiene alla sfera dei rapporti politici tra i due Paesi e dalla comune volontà di trovare una via d'uscita». Ma c'è da davvero da fidarsi di chi a tutti gli effetti si comporta proprio come Capitan Uncino?

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:34