Monti fa da foglia di fico per l'asse ABC

Se da una parte i sindacati e il Pd esultano, mentre dall'altra imprese grandi e piccole, la grande stampa del mondo finanziario (Wall Street Journal, Financial Times), economisti e giuslavoristi di ispirazione sia liberale che riformista polemizzano, o criticano la riforma del lavoro, ritenendo addirittura preferibile nessuna riforma, c'è poco altro da aggiungere. Non si tratta di un «punto di equilibrio». E di «storico» c'è solo lo schiaffone del Wall Street Journal, costretto a rimangiarsi in tutta fretta lo spericolato paragone di Monti alla Thatcher, azzardato solo pochi giorni fa. Per il WSJ infatti la riforma è «una resa a coloro che stanno portando l'Italia verso la Grecia». Certo, come osserva Marchionne, grande sponsor di Monti, «la prova dell'efficacia» della modifica sull'articolo 18 «si vedrà dalla reazione dei mercati, dallo spread e dalla credibilità che il Paese manterrà in questo processo», ma le premesse non sembrano rosee.

Il governo dei tecnici ha completato la sua mutazione in governo politico, di quelli più preoccupati degli equilibri e dei disegni politici che di approvare riforme incisive, se necessario mettendo in gioco la propria permanenza. Se nelle gaffes (la crisi dell'Eurozona «superata»), nell'enfasi con cui si annunciano le misure varate, nell'arroganza - anzi, la stizza - con cui si reagisce alle critiche, negli eccessi di autostima con cui si giudica il proprio operato e si esalta la propria immagine, vi sembra di riconoscere tic e toni poco tecnici e assai "politici", in qualche caso persino berlusconiani, non è perché a Palazzo Chigi si aggira uno strano virus, ma perché anche il più sobrio e asettico dei tecnici, una volta entrato nel ruolo, diventa in tutto e per tutto un politico. Cosa avrebbe scritto sul Corriere il professor Monti della riforma del premier Monti? Sobriamente, con la sua tagliente ironia, l'avrebbe bocciata, caldeggiando tra le righe un governo diverso per il Paese.

L'incisività delle riforme è andata progressivamente calando: da una riforma vera, quella delle pensioni, alle timide e contraddittorie liberalizzazioni, fino alla pessima riforma del lavoro. Ma un vero punto di svolta è ben rappresentato dalla foto che riprende i leader di maggioranza con Monti poco prima di iniziare il primo dei due vertici sul lavoro. Da allora, e dalle schermaglie a distanza tra Monti e i partiti che sono seguite, tutto è cambiato. I partiti sono tornati sulla scena e, consapevoli della loro impopolarità, hanno stretto un patto di non belligerenza, hanno posto le premesse - in termini di sistema elettorale e politici (compromesso sul lavoro) - per la Grande Coalizione. Da sempre Monti, nei suoi editoriali, e Napolitano, nel suo ruolo di capo dello Stato, vedono di buon occhio una collaborazione organica tra i partiti. Dunque, convinti che l'instabilità politica preoccupi i mercati più della timidezza delle riforme, si sono felicemente adeguati, piegando l'incisività della riforma del lavoro alle esigenze del disegno politico che dovrebbe garantire stabilità al Paese anche nel 2013.

Ma così facendo Monti invece di salvare l'Italia ha risparmiato al Pd una dolorosa svolta riformista o, in alternativa, lo ha "salvato" da una possibile, e a quel punto auspicabile, spaccatura. Si è messo al servizio della GC, che alla prima prova tecnica ha prodotto un esito pessimo, che rischia di "bruciare" l'immagine del governo. Non ci sarebbe da sorprendersi se presto, molto presto, ci ritroveremo con il dilemma della caduta di credibilità di Monti e allora saranno guai, perché di "tecnici" salvatori della patria non se ne vedono più. Una riforma che rischia una pesante bocciatura sui mercati, e una GC ad insufficiente tasso di riformismo (volendo includere un Pd a trazione Cgil), possono andare bene a Casini. L'Udc infatti da sempre ambisce a conquistare centralità nel sistema politico, tale da garantirgli una golden share su qualsiasi governo, di centrodestra o di centrosinistra, mentre sui contenuti negli anni si è mostrata estremamente spregiudicata, frenando le riforme liberali quando era al governo e auspicandole dall'opposizione, imponendo il Porcellum alla vecchia CdL salvo poi rinnegarlo. Le riforme, insomma, sono un optional; la centralità il core business dell'Udc.

Un simile scenario non può andar bene ai riformisti del Pd, ai Pietro Ichino. Ammesso che ce ne siano ancora, dovrebbero uscire allo scoperto, non accettare più il ruolo di foglie di fico in un partito che sotto la guida Bersani-Fassina si ostina a rigettare come corpi estranei le idee che dagli anni '90 hanno innovato le socialdemocrazie europee e i laburisti britannici. E' solo su temi come l'articolo 18, e nell'emergenza economica, che si può provocare un chiarimento definitivo, anche a costo - se necessario - di una spaccatura.

Se l'Udc persegue da sempre una politica dei "due forni", oggi Pdl e Pd stanno accarezzando l'idea del ritorno al proporzionale persuasi di poter anche loro praticarla. Come l'Udc si immagina al governo con il Pdl o con il Pd, o con entrambi, a seconda dei risultati elettorali, così il Pdl è attratto dallo stesso tipo di centralità tra Lega da una parte e Udc dall'altra, e il Pd tra Udc e foto di Vasto. E' ovvio che in questo schema qualcuno rischia di farsi molto male.

Appiattendosi al centro, e in particolare su un governo dall'agenda ormai chiaramente di stampo socialdemocratico sul lavoro, che non sembra aver alcuna intenzione di scalfire il perimetro dello Stato nell'economia, il Pdl rischia di lasciare un enorme vuoto politico accanto a sé. Il Sole24Ore ha dato ampio spazio ieri al comunicato di Alfano su lavoro e fisco. O il Pdl riesce in queste settimane a provocare un "Vietnam" sui temi del lavoro, della spesa pubblica e delle tasse a livelli insopportabili, quindi a riaccreditarsi agli occhi dei mercati e dei suoi elettori delusi come forza di cambiamento pro-business e market-friendly, oppure è morto. La sua classe dirigente potrà forse salvare se stessa nel nuovo sistema politico tecno-centrista, ma può scordarsi di giocare un ruolo di partito maggioritario nel Paese e in Parlamento.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:51