Monti, Merkel, Draghi. Chi ha ragione?

Non esiste in Europa un conflitto tra chi vuole il rigore e chi politiche per la crescita. Non tutti coloro che mettono in evidenza il tema della crescita - per esempio, l'Italia di Monti-Napolitano e il governatore della Bce Draghi - lo fanno in opposizione alla linea di rigore tedesca. 

Certamente in questi anni Berlino non ha esercitato sulla crescita una pressione paragonabile a quella esercitata sulla disciplina di bilancio, ma nessuno ha impedito - anzi, tutti da tempo incoraggiano - politiche per la crescita. Il punto sul quale ci si divide è quali politiche. 

Sostenere la crescita allentando il rigore, o addirittura tornando a spendere in deficit? Questo sarebbe sì in conflitto con Berlino. Oppure aumentare il potenziale di crescita delle economie europee attraverso riforme strutturali e puntare su una seria politica di investimenti? Su questo i margini di trattativa ci sono.

Nel corso dell'audizione in commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo, a Bruxelles, Draghi ha parlato della necessità di un «growth pact», un «patto per la crescita», accanto al fiscal compact. La sola espressione dev'essere sembrata una preziosa sponda al candidato socialista all'Eliseo Hollande, il quale però, rileggendo meglio le parole di Draghi ha precisato di avere sulla crescita una concezione diversa da quella del governatore Bce. 

Quel che è certo, ha spiegato Draghi, è che lo sviluppo non è sostenibile con la spesa in deficit, né con una politica monetaria espansiva. «Ci sono paesi - ha ricordato - dove il deficit è stato alto e poi basso, i tassi alti e bassi, e che non sono mai cresciuti, a prescindere da quali fossero le condizioni monetarie e fiscali». Ciò vuol dire che «la radice della mancanza di crescita sta altrove, e va affrontata prima di cercare rimedio nelle politiche monetarie e fiscali». 

Va affrontata non con pacchetti di stimolo, cioè con più spesa pubblica, ma con riforme strutturali, su cui i governi devono essere «più ambiziosi». È questa la linea Draghi, che mercoledì ha ricevuto l'apprezzamento della cancelliera Merkel.

Non c'è dubbio che Berlino oggi stia ponendo maggiore enfasi di quanto abbia fatto finora sul tema della crescita. Non è un cedimento in vista della probabile vittoria di Hollande, che vuole rinegoziare il fiscal compact e tornare alle politiche di spesa. 

Al contrario - come dimostrano i contatti tra gli staff della Merkel e di Monti, al fine di elaborare iniziative concrete per il prossimo Consiglio europeo di fine giugno, nonché gli apprezzamenti giunti da Berlino per le parole del presidente Napolitano sulla necessità di coniugare rigore e crescita - la cancelliera cerca di giocare d'anticipo per arginare preventivamente Hollande: vuole sostituire all'asse con Parigi, che andrebbe in soffitta con la sconfitta di Sarkozy, per lo meno un'intesa con Roma, per mettere in minoranza il probabile nuovo presidente francese.

Quando Monti, intervenendo all'European Business Summit, fa notare che l'Italia è riuscita a imporre il tema della crescita in cima all'agenda Ue, sta rivendicando un successo rispetto all'ossessione rigorista della Merkel, ma anche una precedenza rispetto alle richieste di Hollande, e si prepara a vestire i panni del mediatore tra i due.

Il premier italiano ha le sue richieste da avanzare a Berlino, ma sui fondamentali si schiera al fianco della Merkel e di Draghi, stoppando sul nascere le speranze di Hollande: no alla revisione del fiscal compact e no a «politiche keynesiane di vecchio stampo che favoriscono l'espansione in deficit del bilancio», «scorciatoie illusorie» da evitare. 

Anche Monti, come Merkel e Draghi, sposa un approccio più supply-side, ritenendo che l'Europa abbia bisogno di «aumentare il potenziale di crescita attraverso riforme strutturali». Serve un «quadro strategico per la crescita», che però non deve entrare «in conflitto con la disciplina di bilancio, cui si è arrivati - sottolinea - grazie al contributo della Germania e dell'Ue».

Tuttavia, «le riforme strutturali e il consolidamento di bilancio, da sole, non generano crescita», avverte Monti. Bisogna agire anche sul lato della domanda, salvaguardando la spesa per «progetti infrastrutturali nazionali ed europei» (reti di comunicazioni, energetiche e di trasporto), finanziati sia dal pubblico che dai privati. È questa l'unica concessione di Monti all'approccio keynesiano, il contributo specifico del governo italiano su cui la Merkel dovrà concedere qualcosa se vorrà sancire il nuovo asse. «Le spese di investimento siano trattate in modo più appropriato nei conti pubblici, non come via per eludere la disciplina di bilancio, ma anzi per renderla sostenibile nel medio termine». 

È questa la richiesta di Monti a Berlino, che in concreto potrebbe tradursi nello scontare le spese di investimento in sede di valutazione degli obiettivi deficit/Pil imposti dall'Ue e in una qualche forma di Eurobond, che ovviamente in tal caso non servirebbero a finanziare i debiti sovrani, ma progetti infrastrutturali condivisi. Posizione non diversa, tutto sommato, da quella del presidente uscente Sarkozy, mentre l'approccio di Hollande scade nel puro e semplice deficit-spending.

Si incolpano le politiche di austerity imposte da Berlino e dalle istituzioni Ue (Bce in testa) ai paesi eurodeboli della recessione. 

Indubbiamente si tratta di politiche delflazionistiche, che con una crisi preesistente e una cronica mancanza di crescita, finiscono con l'aggravare la recessione, ma né i tedeschi né la Bce ci hanno imposto politiche così recessive come un'austerity fatta solo di nuove tasse, senza tagli alla spesa e senza vere riforme. E lo stesso Draghi l'ha sottolineato, bacchettando Monti. 

Non poteva che riferirsi al nostro governo, infatti, quando rispondendo in italiano alla domanda di un eurodeputato italiano ha ammonito che «se ci si limita al consolidamento fiscale soprattutto aumentando le tasse, l'effetto è certamente recessivo. Si devono invece tagliare le spese correnti senza toccare gli investimenti. Ma alcuni, in condizioni di estrema urgenza, sono ricorsi all'aumento delle tasse, che è più facile, e hanno tagliato la spesa in conto capitale invece di ridurre la spesa corrente».

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:10