Due modi di vedere gli Eurobond

Il vertice informale Ue di mercoledì sera ha preso la piega di una contesa ideologica piuttosto che di una riunione operativa sulla crisi. Molto tempo è stato perso nel confronto sugli Eurobond - pur sapendo che la netta contrarietà della Germania e di altri membri dell'Eurozona non consente al momento di giungere ad una decisione in questo senso - a discapito di emergenze molto più concrete e minacciose per la sopravvivenza stessa dell'euro, come la crisi greca e del sistema bancario spagnolo. 

Come l'euro possa "vincere" le elezioni in Grecia, dovrebbe essere tra le prime preoccupazioni. A stragrande maggioranza i greci vogliono restare nella moneta unica, ma allo stesso tempo rifiutano il piano imposto dalla trojka (Ue-Fmi-Bce). 

I leader dell'Eurozona quindi dovrebbero chiarire agli elettori greci le implicazioni delle loro libere scelte senza ferirne l'orgoglio nazionale.

Ma la "politicizzazione" del vertice dell'altra sera e una certa radicalizzazione erano per molti aspetti inevitabili. Per tutti, infatti, è stato questo il momento di rimarcare le proprie posizioni negoziali di partenza in vista del Consiglio europeo di fine giugno. 

Alla sua prima uscita a Bruxelles Hollande non poteva apparire in soggezione rispetto ai nein tedeschi, né dare l'idea di puntare subito al compromesso con Berlino. Tanto più che in Francia la campagna elettorale non si è affatto conclusa. Il 17 giugno si terranno le elezioni legislative e il neo presidente vuole trasmettere ai francesi l'idea che votare per i socialisti fa la differenza rispetto al passato. 

Ma sa bene che il Consiglio europeo di fine giugno sarà il momento improcrastinabile delle decisioni. Per partire con il piede giusto all'Eliseo, dovrà uscire da quel vertice con un corposo pacchetto crescita fra le mani e non con una clamorosa rottura. Il quadrilaterale pre-vertice al quale Monti ha invitato la Merkel, Hollande e Rajoy, che si terrà probabilmente a urne chiuse in Francia e in Grecia, potrebbe quindi essere l'ora giusta per la diplomazia. 

Non tornerà il direttorio franco-tedesco, anche se appare troppo semplicistico rappresentare i nuovi equilibri in Europa con una "triplice intesa" Parigi-Roma-Madrid contrapposta a Berlino.

L'intesa sul pacchetto crescita da affiancare al fiscal compact si dovrebbe raggiungere intorno a tre punti: project-bond per finanziare progetti infrastrutturali (energia, trasporti e tlc); ricapitalizzazione della Banca europea degli investimenti; migliore impiego dei fondi strutturali Ue. Sul tavolo anche una qualche forma di golden rule, che sta molto a cuore al premier italiano Monti: scorporare dal calcolo del deficit le spese destinate agli investimenti "buoni", quelli produttivi (da individuare in sede Ue), e magari anche il pagamento dei debiti commerciali della Pa nei confronti delle imprese, anche se in questo caso si tratterebbe più che altro di spesa corrente. 

Di fatto si tratterebbe di deroghe ai nuovi vincoli di bilancio, di una revisione del fiscal compact, alla quale fino ad oggi la Merkel si è opposta. Riguardo gli Eurobond, Hollande e Monti dovrebbero accontentarsi di aver rotto il tabù, di averli ormai inseriti nell'agenda europea, e di vendere il lancio dei project-bond come l'inizio del percorso che porterà a forme di vera e propria condivisione del debito.

I 27, ha spiegato Van Rompuy, concordano sul fatto che occorre «una nuova tappa dell'unione economica e monetaria», ma non c'è accordo su quale debba essere. Prima l'unione fiscale o prima la condivisione del debito? 

Quello sugli Eurobond è un confronto tra due diverse visioni di Europa e dell'economia. Per Hollande la mutualizzazione di una parte del debito è un punto di partenza, perché è attraverso l'indebitamento che si stimola la crescita e se è comune i tassi di interesse sono più ragionevoli. 

Per la Germania invece è un punto di arrivo («ci sono dieci passi da fare prima di arrivare agli Eurobond», avverte la cancelliera Merkel). Prima occorre l'unione fiscale, cioè un'armonizzazione delle politiche di bilancio, altrimenti alcuni paesi si troverebbero di fatto a pagare per garantire i debiti altrui. 

Gli Eurobond per i tedeschi non risolverebbero il problema degli eccessivi debiti nazionali e della scarsa competitività, che è all'origine dell'incapacità di crescere di alcuni paesi. Monti sembra situarsi a metà strada. Non adesso, né alla fine del processo di integrazione, ma «quando i tempi saranno maturi, non fra moltissimo», secondo il premier italiano.

Il punto è che da una parte si vogliono mutualizzare gli elevati debiti dell'Eurozona, ma dall'altra, sul fronte dell'integrazione delle politiche di bilancio e dei mercati, e della riduzione dei gap di produttività, non solo non si è fatto nulla, si è appena cominciato, ma si oppongono resistenze, rinvii e deroghe. 

È più che fondato quindi il sospetto che si pretenda semplicemente che la Germania paghi il conto per tutti.

Forme di condivisione anche parziale del debito come gli Eurobond rischiano di far ripartire l'azzardo morale dei paesi fiscalmente irresponsabili, che d'altronde non hanno saputo approfittare degli anni in cui il loro debito costava come quello tedesco (perché dovrebbero sentirsi "responsabilizzati" ora con gli Eurobond?); di indebolire la loro già fiacca determinazione nell'attuare costose (a livello politico) riforme strutturali; e inoltre non scongiurerebbero nemmeno il rischio di rendimenti ancora più elevati sulla rimanente parte del debito che continuerebbe ad essere emessa a livello nazionale, quindi sganciata dalla garanzia tedesca. 

La crisi sembra aver riportato il costo dei debiti dell'Eurozona ai livelli pre-euro. 

Ciò vuol dire che i mercati stanno prezzando i debiti nazionali come se l'euro non ci fosse. A questo punto avrebbe più senso condividere i debiti nella loro interezza, piuttosto che solo una parte o quelli contratti da ora in avanti. 

Per non parlare del rischio di compromettere definitivamente la solidità dell'euro: emettere titoli di debito comuni quando le situazioni dei bilanci sono così diverse, vanno addirittura dalla piena sostenibilità al vero e proprio fallimento, e quando i gap di produttività sono così elevati, potrebbe significare da un giorno all'altro ritrovarsi in tasca, di fatto, lire e non euro.

Il rischio è che Eurobond e investimenti in infrastrutture servano da specchietti per le allodole per non ridurre il peso dello stato e per aggirare le riforme strutturali necessarie a superare un modello sociale ormai insostenibile.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:19