I mercati sono delusi da Monti

Stavolta erano tanti (100 miliardi), maledetti e subito, eppure non hanno funzionato lo stesso. Certo, i mercati sono preoccupati di come, dal punto di vista tecnico, avverrà il "salvataggio" delle banche spagnole, ma forse continuare a versare acqua in un recipiente bucato non risolve il problema, bisognerebbe prima tappare la falla.

Se l'Italia rischia il contagio - lo spread ieri è tornato pericolosamente vicino ai 500 punti, con rendimenti ben oltre la soglia del 6% - è perché i mercati scommettono sull'effetto domino, sulla probabilità che dopo Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna, una qualche forma di aiuto tocchi tra breve all'Italia. Anche se il direttore generale di Fitch, Ed Parker, in un'intervista a Bloomberg rassicura: «Improbabile», perché il nostro paese è in una situazione migliore rispetto alla Spagna, «ha un deficit di bilancio abbastanza ridotto, un deficit di partite correnti ben più basso», ma soprattutto «non ha gli stessi problemi nel settore bancario». Piuttosto, l'Italia soffre di un «elevato livello di debito pubblico», quindi «ha veramente pochi margini per assorbire eventuali nuovi shock negativi». I tassi di interesse molto più elevati del tasso di crescita, anche di quelli previsti con la ripresa da fine 2013, hanno un impatto negativo sul nostro merito creditizio e mettono quindi a rischio il rifinanziamento del debito.

Il governo sembra aver sottovalutato gli effetti recessivi degli aumenti delle tasse, probabilmente nella speranza che nel frattempo un'attenuazione della pressione dei mercati sul debito pubblico, per effetto delle azioni intraprese in sede europea, favorisse un alleggerimento della stretta creditizia, così da far respirare l'economia reale. Fatto sta che lo spread viaggia ancora abbondantemente al di sopra dei 400 punti, quota nel medio-lungo termine insostenibile, perché richiederebbe sforzi immani, e ulteriormente recessivi, per proseguire nel consolidamento di bilancio. Tassi simili, infatti, rendono praticamente impossibile finanziare l'economia reale e senza crescita è arduo mantenere il bilancio in pareggio e ripagare il debito.

I dati Istat del Pil nel I trimestre 2012 (-0,8% rispetto al trimestre precedente e -1,4% su base annua) spostano le stime governaative contenute nel Def (calo del Pil dell'1,2% nel 2012 e +0,5% nel 2013)  nel campo dell'ottimismo. Le previsioni di Citigroup sono ancora peggiori: -2,4% nel 2012 e -2% nel 2013 (in teoria l'anno della ripresina). Senza crescita, il debito continuerebbe a crescere fino al 137% del Pil nel 2014 dal 120.6% nel 2011, secondo le stime di Citigroup. In 20 anni, quindi rispetto al 1992, ha reso noto di recente l'Istat, il nostro reddito pro-capite è calato del 4%, mentre il prodotto pro-capite, seppure di poco, è aumentato: del 9%. Nelle tasche di chi sono finiti questi 13 punti percentuali di ricchezza. Non in quelle delle imprese, una quota minima è finita all'estero, ma almeno una decina di punti se li è presi lo Stato per finanziare la spesa pubblica.

Affrontata l'emergenza di novembre-dicembre aumentando le tasse, nei mesi successivi il governo non è stato in grado, o non ha voluto, avviare un piano pluriennale per l'inversione di rotta, non solo il mero contenimento, della finanza pubblica, né ha messo in cantiere riforme strutturali incisive. Ancora niente tagli alla spesa (l'obiettivo di risparmio della spending review è molto modesto: non più di 4-5 miliardi, lo 0,57% della spesa corrente); nessun programma di dismissioni (anche Snam, separata da Eni, verrà venduta ad un altro ente dello stato, la Cdp); riforme parziali e insufficienti. I mercati e i media di riferimento del business internazionale se ne sono accorti e la delusione rispetto alle enormi, esagerate aspettative generate dalla nomina di Monti si sta rapidamente diffondendo.

Dopo il Financial Times, anche il Wall Street Journal si è accorto che il premier non è in grado di portare avanti le riforme promesse. «La nomina di Monti aveva aiutato a restaurare la fiducia nell'Italia. Ma ora il paese è in profonda recessione e lo slancio riformatore sta svanendo. Riformare l'Italia potrebbe semplicemente essere troppo per un solo uomo, anche se questo uomo si chiama Monti». Il Wsj ricorda come la ricetta per curare la cronica scarsa crescita italiana l'aveva indicata un anno fa Mario Draghi: tagliare la spesa pubblica, così come le tasse sul lavoro e l'impresa. E migliorare la produttività riformando la giustizia civile, il sistema educativo e il mercato dei servizi, mentre la riforma del mercato del lavoro doveva servire a favorire l'occupazione e la crescita dimensionale delle imprese. Dopo un anno (di cui 7 mesi di governo tecnico), poco o nulla è stato fatto. Il Wsj si sofferma sulla riforma del lavoro, un «passo chiave», che però è stata «annacquata»: in alcuni casi i giudici hanno ancora l'ultima parola sui licenziamenti per motivi economici. E molto ancora potrebbe essere fatto, come osserva il Fmi, decentrando più di quanto fatto finora la contrattazione collettiva.

Il risanamento, osserva ancora il Wsj, si è basato sull'aumento delle tasse più che sui tagli alla spesa e «una profonda recessione - avverte - riaccenderà i timori per la sostenibilità del debito». «Monti - conclude il quotidiano - deve usare il suo restante capitale politico per rinvigorire immediatamente il suo programma di riforme, piuttosto che aspettare che la sua mano sia forzata da un'altra crisi». Insomma, il bluff dell'Italia è definitivamente smascherato. Il premier che se la prende con i "poteri forti" di cui aveva persino negato l'esistenza, i decreti che non escono, l'ostruzionismo della Ragioneria dello stato, lo scontro nell'esecutivo tra chi vorrebbe qualche euro in più per la crescita e chi si erge a custode del rigore, il ministro Fornero intimidito sulla questione "esodati". Un film già visto, quello della progressiva paralisi del governo Berlusconi, che ha contribuito non poco alla sfiducia dei mercati finanziari.

Ma quel che è peggio è che non si può dire che l'opera riformatrice di Monti si sia scontrata più di tanto con le resistenze dei partiti. Il premier non ci ha nemmeno provato, non ha forzato la mano neanche quando avrebbe avuto la forza politica per imporre i tagli e le riforme più radicali. Tutto è stato smontato e annacquato ancor prima di arrivare in Parlamento. Semplicemente perché la sua strategia era, ed è, un'altra: salvare l'apparato statale più o meno così com'è, correggendo il minimo indispensabile con la riforma delle pensioni e la patimoniale immobiliare e poi risolvendo la crisi in Europa, con la stessa operazione di Ciampi-Prodi, cioè convincendo i tedeschi a fidarsi.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:13