Spending review, si poteva fare di più

Non si tratta del taglio della spesa pubblica che servirebbe, tale (non ci stancheremo di ripeterlo) da trasformare i risparmi in meno tasse su cittadini e imprese per far ripartire l’economia; e non è certo questo il passo con cui la Germania è riuscita a tagliare le sue spese di 5-6 punti di Pil in pochi anni. Nell’ultimo decennio la nostra spesa pubblica è cresciuta di quasi 200 miliardi; la spesa primaria, come certificato dalla Corte dei Conti, di circa il 5% in media l’anno. Ebbene, se nessuno ha notato clamorosi miglioramenti nei servizi pubblici e nelle prestazioni sociali rispetto a dieci anni fa (anzi!), vuol dire che almeno 100 di quei miliardi in più spesi si potrebbero recuperare senza “macelleria sociale”.

Ma sapevamo che l’approccio seguito da questo governo è quello della manutenzione. Bisogna per lo meno riconoscere al premier Mario Monti di essere riuscito a non farsi spolpare il marlin appena pescato già durante la prima notte di navigazione. Al rientro in porto, però, ossia alla conversione in legge del decreto, mancano ancora parecchie notti in cui i pescecani (burocrazie, regioni ed enti locali, sindacati, partiti, demagoghi di ogni razza) ritorneranno all’assalto. E’ per questo che non conviene sparare sul pianista, nonostante l’approccio poco ambizioso, il ritardo con cui il governo si è mosso (spinto solo dall’incubo spread), i dietrofront e i punti deboli.

Se non altro – dopo l’incauto rilassamento dei mesi scorsi (quando la crisi sembrava «quasi superata»), che ha contribuito al flop della riforma del lavoro – con il riacutizzarsi della tensione sul debito e la necessità di presentarsi con le carte in regola in Europa, Monti ha recuperato un certo senso di urgenza, riuscendo a superare quasi tutti i veti interni ed evitando di imbarcarsi in estenuanti trattative con sindacati ed enti territoriali, convocati solo per “comunicazioni”. Non mancano, tuttavia, le retromarce: salvi i “mini-ospedali” e il fondo degli atenei, saltata la soppressione di alcuni enti, e forse anche la riduzione dei permessi sindacali e dei trasferimenti ai Caf. 

Ma va detto innanzitutto che dei risparmi complessivi (4,5 miliardi nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014), una parte cospicua andrà a finanziare nuove spese: nobili, come la ricostruzione nelle aree terremotate (2 miliardi), e meno nobili (altri 55 mila “esodati”, che ci costeranno 4,1 miliardi nel periodo 2014-2020). E come mai, nonostante il risparmio di 10 miliardi su base annua l’aumento dell’Iva non è ancora scongiurato, ma solo ritardato di 9 mesi (luglio 2013) e ridotto dal 2014? Probabile che i brutti dati Istat sui conti pubblici nel I trimestre 2012 abbiano indotto alla cautela, ma non sarà il caso di chiedersi se non ci sia qualcosa di sbagliato nella ricetta?

Si chiama spending review, ma solo parte dei tagli è affidata a qualcosa di somigliante ad una riforma strutturale della spesa sul modello britannico. In realtà, si fa ampio ricorso ai tagli lineari, che però qui non demonizziamo affatto. La parte di “review” vera e propria, anche la più meritoria, è quella affidata al commissario Bondi, e sta negli effetti della centralizzazione sulla Consip dell’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (obbligo assoluto per le utenze; nullità dei contratti più sfavorevoli) e nel metodo dei prezzi benchmark, di riferimento, per cui si obbligano i centri di spesa spreconi ad uniformarsi a quelli più efficienti, operando quindi tagli selettivi e virtuosi.

Lineari i tagli ai trasferimenti agli enti locali (-3,2 miliardi le Regioni, -2,5 i Comuni e -1,5 le Province), spesso scaricati sui cittadini in termini di maggiori entrate. Nella sanità lineare il taglio del 5% delle spese per forniture di beni e servizi, così come l’auto-sconto che lo Stato si fa presso le farmacie e le aziende farmaceutiche che riforniscono il Ssn. Colpisce selettivamente i centri di spesa più inefficienti, invece, la rinegoziazione dei contratti, o il recesso, nel caso di significativi scostamenti (20%) dai prezzi di riferimento.

Il governo arriva in ritardo all’appuntamento su almeno due capitoli fondamentali: piante organiche della pubblica amministrazione e riduzione delle province. Si fissano obiettivi importanti, ma il lavoro preparatorio durerà ancora molti mesi, per arrivare al risultato (si spera!) rispettivamente ad ottobre e alla fine dell’anno. Gli obiettivi si sarebbero potuti fissare nel decreto salva-Italia del dicembre scorso, così da arrivare oggi con tutte le carte e i criteri pronti ad essere attuati.

Il -20% di dirigenti e il -10% di dipendenti nella Pa suonano roboanti ma si tratta di cifre teoriche. Innanzitutto, dai tagli sono esclusi settori quali scuola, sicurezza, vigili del fuoco, giustizia e magistratura. Inoltre, tagliare le piante organiche non equivale a tagliare gli effettivi. In alcuni casi i nuovi organici sarebbero comunque superiori ai dipendenti attuali. Il Sole 24ore fa l’esempio dei ministeriali, per i quali il taglio sarebbe di 7.247 unità, pari al 4,1% dei 171.993 dipendenti in pianta organica e al 4,6% dei 156.667 dipendenti effettivi. Solo ad ottobre, quando Patroni Griffi avrà concluso la sua ricognizione, conosceremo i tagli effettivi, ma certo sarà una percentuale molto inferiore al 10%.

Grave, sotto il profilo dei mancati risparmi e dell’equità, il sostanziale rinvio della riforma delle pensioni per i dipendenti pubblici. Gli esuberi infatti saranno quasi tutti gestiti con i prepensionamenti, cioè mandando in pensione con i vecchi requisiti coloro che l’avrebbero maturata entro il 31 dicembre 2014. Se ai dipendenti pubblici che andranno in pensione da qui al 2014 con le vecchie regole si aggiungono i 130 mila esodati già “salvaguardati” e tutti i dipendenti del settore privato che rientreranno nella deroga prevista dall’art. 4 della riforma del lavoro, non resta che da chiedersi chi e quanti sono gli “sfigati” colpiti dalla riforma Fornero. C’è un esercito, insomma, praticamente tutto il settore pubblico e parte di quello privato (il discrimine è quello solito dei 15 dipendenti), cui viene riconosciuto tutto il triennio 2012-2014 per derogare dalla riforma, mentre per pochi altri il limite ultimo s’è fermato al 31 dicembre 2011.

Sulle province si è scelta la via più soft: non la loro abolizione, ma il dimezzamento. La definizione esatta dei parametri per la dimensione territoriale e la popolazione sarà completata entro 10 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ed entro la fine dell’anno avverranno gli accorpamenti, mentre dal 2014 saranno istituite le dieci città metropolitane in sostituzione delle relative province.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:16