Il lodo Draghi mette fuorigioco Bersani

Nonostante non manchino pompose dichiarazioni sulla crisi, i nostri politici mostrano di muoversi sulla scena nostrana, nel balletto delle alleanze, prescindendo da quanto accade, nel frattempo, in Europa. Eppure, difficilmente il futuro assetto del nostro sistema partitico, gli schieramenti che si affronteranno alle elezioni e la coalizione chiamata a governare nel 2013, non dipenderanno in qualche misura anche da quanto viene deciso tra le cancellerie europee e nel board della Bce.

A mente fredda i mercati hanno ponderato meglio il loro giudizio sulle parole di Draghi e ieri le borse europee si sono riprese dal tonfo di giovedì (con guadagni corposi anche prima della positiva apertura di Wall Street), mentre lo spread sui decennali italiani ha ripiegato sotto i 460 punti (gli spagnoli sotto i 540). Certo, si aspettavano un intervento a breve della Bce, già nel mese di agosto, mentre Draghi ha fatto capire che ci vorranno ancora «alcune settimane», ma dopo tutto le sue parole dello scorso 26 luglio a Londra non sono apparse un bluff. Anche giovedì Draghi ha ribadito l’«irreversibilità» della moneta unica, tanto da sfidare apertamente gli speculatori (è «inutile scommettere contro l’euro»). Se le sue parole non sono state ben interpretate fin da subito è perché la soluzione europea non può che passare attraverso un compromesso, un delicato equilibrio, da raggiungere passo dopo passo, e la portata dei passi in avanti non sempre è immediatamente intellegibile.

La Bce è pronta a usare il suo bazooka in difesa dell’euro, acquistando i bond dei paesi in difficoltà (Spagna e Italia) nelle quantità che riterrà opportune e anche adottando misure «non standard» di politica monetaria. Dunque, non acquisti «limitati», come quelli del programma usato nell’estate e nell’autunno del 2011, ma potenzialmente illimitati. Ma per rendere disponibile questo “bazooka”, da affiancare alle risorse limitate dei fondi salva-stati, Draghi ha posto condizioni molto stringenti: i governi dei paesi in difficoltà devono continuare con il risanamento e le riforme strutturali, perché la Bce non può sostituirsi ad essi nel rendere le loro economie compatibili con la moneta unica. Insomma, lo scudo anti-spread non verrà attivato su iniziativa della Bce, ma solo dopo che gli stati avranno chiesto di accedere ai fondi salva-stati, accettandone tutte le condizioni e i monitoraggi previsti.

Questo il compromesso grazie al quale Draghi sarebbe riuscito a isolare la Bundesbank, anche rispetto alla cancelliera Merkel. Anche se probabilmente il governatore non dispera, da qui a qualche settimana, di poter convincere anche la “BuBa”. Un tempo durante il quale gli speculatori dovrebbero essere tenuti a freno dalle sue dichiarazioni combattive di questi giorni e di cui i leader politici dovrebbero approfittare per affinare l’intesa (eventualmente anche sulla licenza bancaria all’Esm).

Bazooka sì, quindi, ma nessuna scappatoia per Spagna e Italia: dovranno chiedere gli aiuti e fare le riforme. Sarebbe impensabile, infatti, far digerire ai tedeschi l’acquisto di bond da parte della Bce senza allinearsi alla loro politica di stringenti condizionalità. Condizionando il proprio intervento alla richiesta di soccorso ai fondi salva-stati, quindi all’iniziativa dei leader politici dei paesi interessati, la Bce mantiene le mani libere: nessun acquisto sarà automatico o “dovuto”. Un margine di incertezza che responsabilizza sia i mercati sia i politici, e che soprattutto preserva la funzione di stimolo, di pressione sui governi, esercitata dai mercati attraverso lo spread (nella cui efficacia Berlino crede fermamente).

Le condizioni che si vanno delineando per l’attivazione dello scudo anti-spread – richiesta formale e firma del memorandum – sembrano mettere in fuori gioco l’alleanza elettorale Pd-Sel, il nuovo Pds (“Polo della speranza”), a cui sta faticosamente lavorando Pierluigi Bersani. La “Carta d’intenti” del Pd (un’analisi approfondita è uscita su queste pagine due giorni fa), che getta le basi per l’intesa programmatica tra i due partiti, è un manifesto di discontinuità, nemmeno troppo sfumata, rispetto all’“agenda Monti”. Certo, l’Europa è il «nostro posto», non c’è alcuna strizzata d’occhio alle pulsioni antieuro, ma Bersani è convinto di poter restare ancorato alla visione di un’Italia saldamente nell’euro, con un ruolo da protagonista nell’Ue, attuando politiche da sinistra novecentesca. Gli “intenti” del Pd, sommati a quelli ancor più esplicitamente anti-montiani enunciati da Vendola, delineano un’alleanza che esprime una politica di sinistra “identitaria” per fare il pieno di voti a sinistra, pronta eventualmente a contaminarsi con le istanze montiane dell’Udc dopo il voto, se necessario per formare una maggioranza parlamentare. Ma in questo modo rischiando una riedizione dei conflitti interni all’Unione prodiana.

Un’alleanza siffatta sarebbe “unfit” a rispettare gli impegni eventualmente assunti dall’Italia con Ue e Bce a seguito della richiesta di attivazione dello scudo, che potrebbe essere avanzata già a settembre. Ecco perché il “lodo” Draghi (bazooka della Bce sì, ma a condizioni “tedesche”) mette in fuori gioco la coppia Bersani-Vendola e aumenta invece le chance di un Monti-bis dopo il voto, l’unica prospettiva, al momento, che renderebbe credibile il rispetto degli impegni da parte del nostro paese.

Se dopo le parole di Draghi possiamo essere ragionevolmente ottimisti sullo scudo europeo, ora serve immediatamente uno scudo anti-spread italiano: un programma credibile e concreto per l’abbattimento, in tempi ragionevoli, dello stock di debito pubblico e una riduzione della spesa pubblica tale da permettere di ridurre gradualmente ma sensibilmente la pressione fiscale. Una proposta di abbattimento del debito è giunta nei giorni scorsi dal Pdl e finirà sul tavolo di Monti: un piano da 400 miliardi, il quadruplo di quello di Grilli (15-20 miliardi l’anno per 5 anni), per riportare il debito sotto il 100%.

Ma c’è uno strano spread tra Pdl e Pd: il Pdl soffre di scarsa credibilità, il Pd di troppa credibilità. Nel senso che il Pdl, pur avendo di recente formulato una proposta articolata e interessante per l’abbattimento del debito e la riduzione delle tasse, ha dimostrato al governo di non saper mantenere le proprie promesse e, anzi, di fare l’esatto contrario. Il Pd, al contrario, quando minaccia la patrimoniale, quando promette investimenti e dirigismo (quindi più spesa), quando parla di “redistribuzione” e di gestione pubblica dei “beni comuni”, può essere creduto sulla parola, ma se lasciato fare ci porterebbe dritti in Grecia.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:14