Fermare il declino: il manifesto

Il manifesto “Cambiare la politica, fermare il declino, tornare a crescere” è sicuramente la proposta politica più interessante nel nostro Paese. Chi scrive ha aderito al manifesto, dunque non posso formulare un’analisi del tutto asettica. Ritengo, comunque, sia utile vedere tutti i limiti di questo progetto. Se non altro per prevenire eventuali delusioni. E di delusioni, per i liberali, ce ne sono state tantissime nell’ultimo ventennio. Sperando che almeno questa non sia l’ennesima delusione, ma sia, anzi, la premessa di una vera svolta, vediamo di analizzare le caratteristiche fondamentali di ogni singolo elemento che costituisce ogni nuova proposta politica. Prima di tutto: il programma. Già è bene (e un bene raro) che si parta dal programma e dalle idee. Finora i progetti politici italiani sono partiti da un’ideologia da acquistare a scatola chiusa (i partiti tradizionali), o da un leader in cui avere fede (i partiti nati dopo il 1992). Tutti hanno proposto un programma o chiesto alla loro base di formularne uno. Operazioni di facciata. Quel che contavano erano le élite partitiche, teoricamente detentrici dell’ideologia, oppure il leader che fa e disfa i programmi e le alleanze a seconda delle sue momentanee intuizioni. Partire seriamente da un programma e costruire, attorno ad esso, sia la struttura del partito che la classe politica che lo dovrà guidare, è già un grande passo avanti. Vediamolo, allora, questo programma. 

Punto uno: Ridurre l’ammontare del debito pubblico: è possibile scendere rapidamente sotto la soglia simbolica del 100% del PIL anche attraverso alienazioni del patrimonio pubblico, composto sia da immobili non vincolati sia da imprese o quote di esse. Bene, niente da obiettare.

Punto due: Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell’arco di 5 anni. La spending review deve costituire il primo passo di un ripensamento complessivo della spesa, a partire dai costi della casta politico-burocratica e dai sussidi alle imprese (inclusi gli organi di informazione). Ripensare in modo organico le grandi voci di spesa, quali sanità e istruzione, introducendo meccanismi competitivi all’interno di quei settori. Riformare il sistema pensionistico per garantire vera equità inter—e intra—generazionale.

Bene, anche se andrebbe approfondito. Si deve render chiaro che sanità e istruzione possono e devono essere privatizzate. Si potrebbe chiaramente introdurre qualche misura-ponte, come il buono scuola per l’istruzione o il buono sanità nel sistema sanitario, in modo da permettere agli italiani meno abbienti di scegliere il servizio (privato) migliore. Spero non si cada ancora nella trappola della concorrenza fra pubblico e privato. Perché il primo, grazie ai suoi privilegi, finirebbe per schiacciare il secondo, come è successo sinora in tutti i settori. Anche sulle pensioni è meglio essere chiarissimi sin da subito. La riforma funziona solo se si introduce il sistema a capitalizzazione (come in Cile), in cui ciascun lavoratore risparmia per sé, investendo in un fondo pensione privato, invece che pagare i contributi allo Stato. Finora noi abbiamo assistito a finte riforme della previdenza, in cui lo Stato si è limitato a rimandare l’età pensionabile, per far pagare più contributi. Ma di fronte ad una popolazione che invecchia, questo metodo è destinato comunque ad esaurire le risorse, nel momento in cui i giovani che lavorano vengono superati numericamente dai pensionati da mantenere. Il sistema a capitalizzazione non porrebbe alcun problema di età: vai in pensione quando lo decidi tu e prenderai quello che tu hai deciso di risparmiare e investire. E’ l’unico modo di garantire l’ vera equità inter—e intra—generazionale.

Punto tre: Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni, dando la priorità alla riduzione delle imposte sul reddito da lavoro e d’impresa. Semplificare il sistema tributario e combattere l’evasione fiscale destinando il gettito alla riduzione delle imposte. 

Viviamo nel Paese con la più alta pressione fiscale del mondo. Paghiamo il 54% (reale) di quel che guadagniamo. Ridurre questa pressione al 49% (sempre in termini reali) vuol dire comunque regalare forzatamente la metà del proprio lavoro allo Stato. Il programma dice almeno 5 punti, quindi spero solo che sia realmente solo una prima tappa. Altrimenti non ci sono molte alternative: portar via la metà dei redditi ai cittadini, siano essi produttori o risparmiatori, vuol dire strangolare il Paese nello spazio di una legislatura. Come sta già avvenendo, per altro.

Punto quattro: Liberalizzare rapidamente i settori ancora non pienamente concorrenziali quali, a titolo di esempio: trasporti, energia, poste, telecomunicazioni, servizi professionali e banche (inclusi gli assetti proprietari). Privatizzare le imprese pubbliche con modalità e obiettivi pro-concorrenziali nei rispettivi settori. Inserire nella Costituzione il principio della concorrenza come metodo di funzionamento del sistema economico, contro privilegi e monopoli d’ogni sorta. Privatizzare la RAI, abolire canone e tetto pubblicitario, eliminare il duopolio imperfetto su cui il settore si regge favorendo la concorrenza. Affidare i servizi pubblici, incluso quello radiotelevisivo, tramite gara fra imprese concorrenti. 

Benissimo, nulla da obiettare.

Punto cinque: Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui lavoravano, devono godere di un sussidio di disoccupazione e di strumenti di formazione che permettano e incentivino la ricerca di un nuovo posto di lavoro quando necessario, scoraggiando altresì la cultura della dipendenza dallo Stato. Il pubblico impiego deve essere governato dalle stesse norme che sovrintendono al lavoro privato introducendo maggiore flessibilità sia del rapporto di lavoro che in costanza del rapporto di lavoro. 

Sicuramente meglio del posto fisso o della cassa integrazione. Sarebbe un sistema di welfare molto più leggero. Purché sia da intendersi come un sistema transitorio. Quel che non c’è scritto nel programma, e che invece è di fondamentale importanza, è la libertà di licenziare. Un welfare leggero avrà senso solo se un imprenditore ottiene la piena libertà di risolvere, quando e come vuole, un rapporto di lavoro nell’azienda di sua proprietà. Altrimenti anche un welfare leggero diverrebbe una burocrazia in più. Forse, in un periodo come questo, parlare di licenziamenti non è popolare. Spero che i promotori del manifesto lo abbiano sottinteso e scritto nel loro programma almeno con l’inchiostro simpatico.

Punto sei: Adottare immediatamente una legislazione organica sui conflitti d’interesse. Imporre effettiva trasparenza e pubblica verificabilità dei redditi, patrimoni e interessi economici di tutti i funzionari pubblici e di tutte le cariche elettive. Instaurare meccanismi premianti per chi denuncia reati di corruzione. Vanno allontanati dalla gestione di enti pubblici e di imprese quotate gli amministratori che hanno subito condanne penali per reati economici o corruttivi. 

Qui iniziano i primi problemi. In una logica statalista, dove comunque la politica mantiene il primato sul mercato, hai bisogno di leggi sulla trasparenza e il conflitto di interesse, lotta alla corruzione (come nell’Urss di Andropov?) e meccanismi di epurazione. Sono leggi sempre fallimentari. Perché chi controlla il controllore è spesso e volentieri il primo ad essere corrotto, colluso e in conflitto di interesse: è un esito iscritto nella stessa logica del potere politico. In compenso, in un sistema di controlli oppressivi, finisce denunciato e punito solo l’elemento più debole, il poverocristo che non ha fatto carriera e sta antipatico a troppi, il parvenu e il figliodinessuno con idee “sbagliate”. Questo punto programmatico contiene il pericolo di una nuova élite di censori. E sì che, per ottenere gli stessi risultati di trasparenza e veder premiato il merito, senza incorrere in leggi potenzialmente liberticide, basterebbe semplicemente ricorre alle privatizzazioni. Lasciamo che sia il mercato a selezionare, punire e premiare.

Punto sette: Far funzionare la giustizia. Riformare il codice di procedura e la carriera dei magistrati, con netta distinzione dei percorsi e avanzamento basato sulla performance; no agli avanzamenti di carriera dovuti alla sola anzianità. Introdurre e sviluppare forme di specializzazione che siano in grado di far crescere l’efficienza e la prevedibilità delle decisioni. Difendere l’indipendenza di tutta la magistratura, sia inquirente che giudicante. Assicurare la terzietà dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Gestione professionale dei tribunali generalizzando i modelli adottati in alcuni di essi. Assicurare la certezza della pena da scontare in un sistema carcerario umanizzato. 

Tante parole, ma manca la riforma fondamentale: piena responsabilità civile e penale dei giudici. Chi sbaglia (e rovina la vita a un innocente) deve pagare. Il resto andrebbe da sé: i giudici diverrebbero improvvisamente più responsabili ed efficienti di fronte alla possibilità di una pena.

Punto otto: Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne, oggi in gran parte esclusi dal mercato del lavoro e dagli ambiti più rilevanti del potere economico e politico. Non esiste una singola misura in grado di farci raggiungere questo obiettivo; occorre agire per eliminare il dualismo occupazionale, scoraggiare la discriminazione di età e sesso nel mondo del lavoro, offrire strumenti di assicurazione contro la disoccupazione, facilitare la creazione di nuove imprese, permettere effettiva mobilità meritocratica in ogni settore dell’economia e della società e, finalmente, rifondare il sistema educativo. 

Altro grosso problema di questo decalogo: perché le donne e i giovani dovrebbero costituire una categoria a sé? Se le donne e i giovani sono discriminati (sempre meno, a dire il vero) nelle imprese, è per una questione di mentalità. Non puoi riformare una mentalità a colpi di riforme politiche. Altrimenti finisci per peggiorare il problema: costringere liberi imprenditori ad accettare chi non vorrebbero mai accettare, crea le premesse per una discriminazione ancora peggiore. O la creazione di “riserve naturali”, se preferite. Una schifezza, insomma, in cui il “protetto” si fa parassita e il “protettore”, suo malgrado, lo deve subire. Anche qui, sarebbe bastato un sano principio di libero mercato, senza corporazioni, senza ordini professionali, con piena libertà di licenziare e assumere: l’unico sistema in cui chiunque (giovane, donna, uomo che sia) può farsi strada senza ricorrere a protezioni politiche.

Punto nove: Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Non si tratta di spendere di meno, occorre anzi trovare le risorse per spendere di più in educazione e ricerca. Però, prima di aggiungere benzina nel motore di una macchina che non funziona, occorre farla funzionare bene. Questo significa spendere meglio e più efficacemente le risorse già disponibili. Vanno pertanto introdotti cambiamenti sistemici: la concorrenza fra istituzioni scolastiche e la selezione meritocratica di docenti e studenti devono trasformarsi nelle linee guida di un rinnovato sistema educativo. Va abolito il valore legale del titolo di studio. 

Problema: spendere coi soldi di chi? Con le tasse abbiamo già dato. E abbiamo visto che vengono spese male, proprio perché il gettito viene allocato con criteri politici, non certo “meritocratici”. Spero solo che questo punto programmatico si concretizzi nell’unico modo intelligente possibile: aprendo le porte ai finanziamenti privati a favore di istituti e centri di ricerca anch’essi privati. Sarebbe l’unico modo per instaurare un vero regime di competizione fra menti, idee e progetti. Va bene l’abolizione del valore legale del titolo di studio, inutile pezzo di carta che non permette a un datore di lavoro di capire quanto vali realmente.

Punto dieci: Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Un federalismo che assicuri ampia autonomia sia di spesa che di entrata agli enti locali rilevanti ma che, al tempo stesso, punisca in modo severo gli amministratori di quegli enti che non mantengono il pareggio di bilancio rendendoli responsabili, di fronte ai propri elettori, delle scelte compiute. Totale trasparenza dei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle società partecipate da enti pubblici con l’obbligo della loro pubblicazione sui rispettivi siti Internet. La stessa “questione meridionale” va affrontata in questo contesto, abbandonando la dannosa e fallimentare politica di sussidi seguita nell’ultimo mezzo secolo.

Benissimo insistere sull’autonomia di spesa e di entrata degli enti locali. Male insistere sulle punizioni agli amministratori o sulla trasparenza dei bilanci locali, disposizioni che appaiono come il frutto di un centralismo autoritario del nostro passato. Fosse vero federalismo, gli amministratori dovrebbero essere liberi di fare tutte le porcate che vogliono. E poi dovrebbero essere lasciati fallire, come avviene regolarmente negli Usa. Questo programma, invece, spalanca una porticina di servizio a un nuovo centralismo, che qualche politico conservatore potrebbe benissimo imboccare per mantenere lo status quo.

Insomma, già il programma alterna luci e ombre. E’ l’agenda più liberale che sia stata scritta negli ultimi anni, in un’Italia che sembra produrre solo cacce all’evasore e populismi fondati sulla voglia di nuovi divieti, finti liberali (poi socialisti all’atto pratico) e apologeti del defunto comunismo. Certo, anche in questo programma, come abbiamo visto, aleggia lo spettro del socialismo e del dirigismo, lo stesso che finora ha affossato l’Italia. Potrà prendere una piega positiva o negativa, liberare i cittadini o opprimerli ancor di più, a seconda di chi si aggregherà attorno a questi dieci punti teorici e li saprà tradurre in azione politica. Certo avrei preferito un’agenda che non avesse dato adito a questi equivoci e spianato la strada a simili pericoli.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:34