Terroristi? No, sovversivi

Se qualcuno vi dicesse che il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’assassinio di D’Antona e di Biagi, per citare crimini più recenti, non furono atti di terrorismo, ma solo “sovversivi”, probabilmente gli dareste del pazzo delirante. Eppure, è ciò che in pratica hanno sancito la Corte di Cassazione e la Corte d’assise d’appello di Milano nelle sentenze di condanna che riconoscono gli imputati, appartenenti alle «nuove Brigate rosse-Partito comunista politico militare» (Pcpm), colpevoli sì di associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis). Non si tratta di una questione solo nominalistica, tra le due fattispecie di reato ballano parecchi anni di pena. Ma l’organizzazione neobrigatista non può essere considerata terroristica, sostengono i giudici, perché non si ravvisano in essa «il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri», né «la volontà di destabilizzare» o «distruggere gli assetti istituzionali del Paese». I “sovversivi” si sono limitati ad incendiare le sedi di Forza Italia a Milano e di Forza Nuova a Padova, e a progettare attentati contro la sede del quotidiano Libero, un manager della Breda e il giuslavorista e senatore Pietro Ichino.

Gli imputati avevano sì in testa un «disegno eversivo», «sovversivo», e stavano progettando una serie di azioni, ma la loro – scrivono i giudici d’appello nelle motivazioni – era una «violenza generica e non terroristica». Portatori di una «aberrante visione ideologica», non disdegnano «affatto la violenza della guerra», che anzi rappresenta per loro «il momento finale dello scontro di classe». Volevano fare «proseliti» attraverso la «propaganda armata», per questo stavano preparando «plurimi attentati» e Ichino era uno dei loro «obiettivi politici». Tuttavia, non hanno agito con «modalità terroristiche» – e qui l’argomentazione si rende ridicola – perché i loro bersagli erano mirati, scelti e individuati con precisione, e si ponevano «il problema di evitare gli “effetti collaterali” della loro azione eversiva e violenta», poiché non era loro intenzione «generare panico o terrore». Ammesso e non concesso che l’assassinio dell’ennesimo giuslavorista non intimidisca la popolazione, ma progettare un attentato ad un senatore della Repubblica non esprime forse «la volontà di destabilizzare gli assetti istituzionali»?

In questo modo i giudici rischiano di legittimare implicitamente la logica e i criteri dei brigatisti nell’individuare le loro vittime. La sentenza di fatto attribuisce, unicamente sulla base dei loro disegni criminali, il carattere di “non indiscriminate” ad aggressioni che in effetti appaiono proprio indiscriminate, dal momento che solo nella mente dei brigatisti – speriamo non anche dei giudici – la vittima viene assunta con motivo e non indiscriminatamente a simbolo e rappresentante del “sistema” da abbattere. E il discrimine può essere semplicemente di ordine pratico: tra i potenziali bersagli colpire il meno protetto.

L’aggravante delle finalità terroristiche, osserva Ichino, è stata introdotta nel codice proprio per combattere la lotta politica armata, ma da oggi è di fatto inservibile. A ben vedere, infatti, storicamente il terrorismo rosso non ha mai agito così indiscriminatamente come pretendono i giudici oggi perché si configuri la matrice terroristica. Negli anni ‘70 iniziarono individuando i loro bersagli prima nelle fabbriche, tra gli industriali e tra i sindacalisti, poi tra i magistrati che li perseguivano, per arrivare ai giornalisti, ai politici e agli statisti come Moro. Questa sentenza assolve dall’accusa di terrorismo anche le vecchie brigate rosse.

Il bersaglio in realtà è indiscriminato perché non è la persona Ichino che si vuole colpire, ma lui in quanto simbolo della categoria a cui appartiene o delle idee che esprime. Tutti coloro che fanno parte della categoria di Ichino, gli studiosi di diritto del lavoro impegnati in politica, o di altre, come manager di aziende, giornalisti, politici, uomini delle istituzioni, e tutti coloro bollati per le loro idee come nemici di classe, sono potenziali bersagli. E’ evidente per ciò come l’obiettivo non sia colpire una singola persona, ma terrorizzare un’intera categoria e corrente di pensiero politico. Certo, il “sovversivo” dirà che chi non è nemico di classe, chi non sostiene il “sistema”, non ha nulla da temere. Lo stesso leader delle nuove Br, Alfredo Davanzo, ha fornito la prova del carattere indiscriminato delle loro intenzioni, quindi terroristiche, quando rispondendo a Ichino ha detto: «Questo signore rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema». In queste parole, pronunciate in udienza, davanti ai giudici, c’è sia l’ammissione di voler colpire gli «esecutori di questo sistema», un bersaglio direi sufficientemente indiscriminato, sia di voler destabilizzare» o «distruggere gli assetti istituzionali» (il sistema).

Sembra che agli occhi dei giudici per «intimidire indiscriminatamente la popolazione» ci voglia un attentato che possa coinvolgere potenzialmente chiunque tra 60 milioni di persone. Non basta forse, per essere “indiscriminato” e per “intimidire”, che possa colpire nel mucchio un’ampia categoria di persone, addirittura tutti gli «esecutori di questo sistema», quindi in teoria non solo i milioni di persone (tra cui magistrati e uomini delle forze dell’ordine) che servono lo stato?

Queste sentenze rischiano di rappresentare molto più che un semplice “abbassare la guardia” rispetto al fenomeno neobrigatista e anarchico-insurrezionalista. Rischia di passare il messaggio che entrare nella lotta armata, concepire la guerra contro il “sistema” e i suoi uomini come uno strumento di lotta politica, non è terrorismo, a patto di selezionare con cura i propri bersagli, preoccupandosi di evitare vittime “collaterali”. Basta essere accurati, insomma, per sfuggire all’accusa di terrorismo e farsi molti meno anni di carcere?

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:34