L'ultimo saluto a Shlomo Venezia

Ieri notte ci ha lasciati Shlomo Venezia, deportato ad Aushwitz-Birkenau che fino all’ultimo ha trasmesso la memoria di un’ombra nefasta che pesa da settanta anni.

Era l’ultimo Sondernkommando in vita. Faceva parte di qull’unità speciale destinata alle operazioni di smaltimento e cremazione. In parole più nude e crude, si trattava di prendere i corpi dalle camere a gas e zepparli nei forni crematori. Fra di loro bambini, vecchi, donne. Ogni giorno, ogni ora, ogni momento iniziato un paio di mesi dopo la sua deportazione nell’aprile 1944, fino al 27 gennaio 1945 (o pochi giorni prima la liberazione del campo da parte delle truppe sovietiche).

Come ben riporta Wikipedia: Shlomo Venezia venne arrestato con la famiglia, composta, oltre a lui, da sua madre, suo fratello e le sue tre sorelle, a Salonicco nell’aprile 1944 e deportato presso il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, uno dei tre campi principali che componevano il complesso di Auschwitz. Durante la selezione operata dai medici nazisti per separare i deportati considerati abili al lavoro da quelli «inutili», che venivano immediatamente inviati alle camere a gas, Venezia si salvò insieme al fratello, la sorella maggiore, che rivedrà solamente nel 1957, e due cugini. Venezia venne successivamente sottoposto al tipico processo subito dai deportati ad Auschwitz: rasatura, doccia, tatuazione del numero sull’avambraccio sinistro, vestizione con gli abiti da internato. Terminate le operazioni di “inserimento burocratico”, Venezia venne rinchiuso in un’apposita ed isolata sezione del campo per passare il periodo di quarantena di 40 giorni, che avrebbe dovuto impedire - secondo le autorità tedesche del campo - la diffusione di epidemie all’interno del lager.

Dopo solo 20 giorni di quarantena, Venezia fu assegnato al Sonderkommando di uno dei grandi crematori di Birkenau, composto principalmente da giovani prigionieri di robusta costituzione ed in buone condizioni fisiche, a causa dello sforzo fisico richiesto dal lavoro: l’eliminazione delle prove di quello che stava avvenendo.

Come scrive Grazia Di Veroli, consigliera dell’Associazione nazionale ex deportati: «È in preparazione il congresso dell’Associazione, e veder scorrere mail in cui le sezioni comunicano l’impossibilità dei sopravvissuti di intervenire a questo congresso mi fa pensare molto. I superstiti dei campi di sterminio ci stanno lasciando in un periodo in cui la negazione è sempre più spesso evocata 0187. Lo scorso anno in un incontro con Gianfranco Maris, ex partigiano ed ex deportato durante il nazifascismo, membro del Consiglio superiore della magistratura e senatore per due legislature,  scaturì questa affermazione: «Non dobbiamo piangere quando visitiamo un campo di sterminio: Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Rawensbruck perché non sono cimiteri, ma luoghi di resistenza. Gli ex deportati sono uomini e donne che hanno mostrato la loro forza, la loro voglia di combattere allora ed oggi non dobbiamo dimenticarlo, anzi, dobbiamo imparare da loro a combattere».

Con Shlomo se ne va dunque un altro grido vivo, un altro grande testimone di quel che è stato.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 15:44