Monti allarga il fronte anti-Bersani

La parziale e cauta frenata di ieri da parte di Monti («quando lasceremo ad altri, nei prossimi mesi, il governo...»), per alleggerire la tensione su Pd e Pdl, non cambia le carte in tavola: la sua  disponibilità non a candidarsi premier ma ad essere richiamato in servizio dopo il voto ha smosso le acque della politica italiana. Rischia addirittura di sconvolgere la geografia e la morfologia dei partiti. Se il discrimine degli ultimi vent’anni è stato quello tra berlusconismo e antiberlusconismo, sembrerebbe che se ne stia per costituire uno nuovo, tra montismo e antimontismo. Entrambi, in realtà, non sono che i fenomeni visibili di quella sorta di cordone sanitario che puntualmente si riattiva per evitare di consegnare la guida del paese ai post-neo-comunisti.

Il bis di Monti oggi è auspicato da Washington a Berlino, passando per Bruxelles, dal mondo finanziario ed economico, sia internazionale che nostrano – dalle elites, insomma – ma più si avvicina il momento delle elezioni e più sarà chiaro anche agli italiani, a quella parte maggioritaria che non si fida della sinistra, che è l’unica alternativa realistica ad un governo Bersani-Vendola. Com’era previdibile, Casini e Fini sono stati i primi ad aggrapparsi alla zattera Monti. Non era scontato, anche se non sorprende, che lo abbia fatto Montezemolo. Se il numero uno della Ferrari non si candida in prima persona non è perché disinteressato alle poltrone, o per rompere con i personalismi della II Repubblica. Semplicemente i sondaggi non sono favorevoli e a Luchino piace vincere facile, avere la pista tutta per sé, piuttosto che doverci mettere la faccia e sudarsela, rischiando la figuraccia: così come non si sarebbe mai candidato sfidando Silvio, oggi non osa intralciare la strada che porta al Monti-bis. Sperando, magari, di essere ricompensato con una chiamata a far parte della squadra.

Ma anche nel Pdl e nel Pd qualcosa si muove. Per nessuno dei due è elettoralmente conveniente sostenere apertamente un Monti-bis, ma i montiani di entrambi i partiti stanno uscendo allo scoperto. Berlusconi non può dirlo, ma sa che il prof è l’unica speranza di non finire isolato all’opposizione. Per Bersani, invece, rappresenta l’unico ostacolo che lo separa da Palazzo Chigi. D’altra parte, l’alleanza con Vendola rende non credibile il segretario Pd quando offre ripetutamente garanzie sull’“agenda Monti” come punto di non ritorno. La sua presunta “arma segreta” – “sistemare” Monti al Quirinale – è spuntatissima.

Se quello di Bersani sull’ipotesi Monti è un garbato ma netto “no” – sarebbe una vittoria “scippata”, vedere il Pd primo partito ma “scippato”, appunto, della premiership – quello del Pdl è per ora un “vorrei ma non posso”, un “sì” che pubblicamente diventa un “no, a meno che...”, principalmente a causa delle forti resistenze degli ex An. L’obiezione di Alfano è formalmente corretta – come si fa a sostenere un non-candidato premier? – ma rischia di venire sorpassata dalla sostanza e dagli eventi. In fondo, a Costituzione vigente, che non prevede alcuna elezione diretta del premier, un senatore a vita che offre ai partiti la sua disponibilità a guidare il governo non è così dissimile dalle autocandidature dei deputati Bersani o Berlusconi. La differenza è che Monti non è leader di un partito, ma nemmeno Prodi lo era. Ha però delle forze politiche che possono più o meno esplicitamente sostenere la sua candidatura. Dunque, la differenza è labile e se il Pdl non decide, non si dà una linea, rischia di essere risucchiato dalle sue pulsioni anti-europeiste e populiste.

Insomma, Monti è in campo e nessuno può più far finta di niente. Ed è forse sbagliato chiamarlo “Monti-bis”. Stavolta non si tratterebbe di una carta d’emergenza, ma di una vera e propria ipotesi politica, prospettata già prima del voto e dopo un anno e mezzo di governo. C’è tutto il tempo perché anche gli elettori più disgustati dalla politica comprendano la posta in gioco. E per chi si porrà il problema di come fermare la gioiosa macchina da guerra 2.0 di Bersani, si profila un menu abbastanza ricco da accontentare tutti i palati, dai più abitudinari ai più esigenti: c’è l’aperitivo delle primarie servito da Renzi; mentre alle politiche la vecchia zuppa Pdl, la minestra riscaldata di Casini-Fini, o nuove portate, quella «riformatrice e liberale» di Montezemolo e quella liberista di Fermareildeclino. Anche Giannino e i suoi si sono dovuti esprimere sull’ipotesi Monti e hanno colto il nodo.

Chiaro che Monti sia preferibile a Bersani, ma tranne quella delle pensioni le altre riforme sono state un bluff. Con il prof si galleggia anziché affondare, ma per tornare a navigare non basta Monti, bisogna emendare la sua “agenda” nel senso giusto, quello indicato da “Fermareildeclino” (meno Stato, meno tasse), ma anche dal Pdl (debito e cuneo fiscale), per quanto meno credibile per i trascorsi al governo. Non si rende conto Monti che proprio non candidandosi apertamente, non promuovendo una lista o un rassemblement, non chiedendo il consenso dei cittadini spiegando loro cosa vorrebbe fare nei prossimi cinque anni, illudendosi di diventare “politico” senza sporcarsi le mani, rischia di offrirsi come zattera di salvataggio per vecchie nomenclature parassitarie o come tram per opportunisti senza coraggio? Se il suo bis prendesse forma semplicemente da un impasse politico, rischierebbe di restare prigioniero dei veti contrapposti di una maggioranza troppo disomogenea, come accaduto da marzo in poi. Viceversa, uscendo dall’illusione dell’unità nazionale, rivelando il suo programma per ottenere una legittimazione popolare, costringerebbe i nemici della sua “agenda” ad uscire allo scoperto.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:01