Ora Monti è davvero in campo

In modo del tutto inatteso il premier Mario Monti ha tirato fuori dal cilindro della legge di stabilità un mini-taglio delle prime due aliquote Irpef, che passano dal 23 al 22% e dal 27 al 26%. Ma il taglio delle tasse non è che un abile illusionismo, degno di un governo politico alla ricerca di consenso in piena campagna elettorale. 

La riduzione Irpef dal 2013, infatti, è più che compensata sia dall’aumento di un punto dell’Iva, dal 10 all’11% e dal 21 al 22%, dal prossimo luglio, che dal “riordino” delle agevolazioni fiscali e dall’introduzione dell’Irpef anche sulle pensioni di guerra e d’invalidità. 

Per non parlare della Tobin Tax, che se entrerà davvero in vigore non colpirà certo i grandi speculatori internazionali, quanto i normali risparmiatori.

Se tutto in Cdm fosse andato come da pronostici della vigilia, ieri mattina ci saremmo svegliati ascoltando dai giornali-radio la notizia che i temuti aumenti dell’Iva erano stati scongiurati. Invece, la notizia è stata: il governo taglia l’Irpef per i redditi più bassi. Se nella sostanza la pressione fiscale resterà invariata, e semmai rischia di salire ancora, la sensazione trasmessa all’opinione pubblica, attraverso la gran cassa mediatica di stampa e tv compiacenti, è che si è iniziato un percorso di riduzione delle tasse. 

Il che magari è anche nelle intenzioni del premier e del suo governo, ma ad oggi, alla vigilia del voto, non lo è nei fatti. Non l’Irpef, inoltre, ma l’elevatissimo costo del lavoro, il cuneo fiscale, impedirà la crescita anche per tutto il 2013, secondo tutte le più autorevoli organizzazioni internazionali, dall’Ocse al Fmi.

Il prestigiatore Monti però ha voluto lanciare lo stesso un chiaro messaggio: la sua “agenda” sta funzionando. E con orecchio attento ai malumori del ceto medio, ha voluto far capire di essere sempre più “in campo” per un bis a Palazzo Chigi. È stato lui stesso, in conferenza stampa, a decifrare il messaggio: «La disciplina di bilancio paga, conviene... abbiamo voluto dare il chiaro segnale che quando ci sono segni di stabilizzazione finanziaria ci si può permettere qualche sollievo». E il segnale sta, appunto, nell’«inizio della riduzione Irpef», nella speranza, ha aggiunto, che gli italiani vedano che la rotta «ha senso», che può portare a «benefici concreti». Una finanziaria elettorale, la si sarebbe definita in altri tempi, anche se bisogna riconoscere al professore di non aver agito con la stessa rozzezza dei governi passati.

Nel suo complesso la manovra, da 11,6 miliardi, appare più calibrata sui tagli alla spesa rispetto ai precedenti interventi del governo Monti, ma purtroppo ancora troppi risparmi appaiono destinati a nuove spese di dubbia utilità. E come al solito, quei pochi tagli che ci sono bisognerà difenderli dagli urlatori di professione e dai demagoghi della “macelleria sociale”. 

Stretta sul pubblico impiego (blocco dei contratti fino al 2014 e niente indennità di vacanza contrattuale fino al 2015); stop all’affitto e all’acquisto di nuovi immobili (ed automobili) da parte della pubblica amministrazione; risparmi su arredi, consulenze e bolletta elettrica (spegnendo le luci negli edifici pubblici durante la notte). Ma le barricate verranno alzate contro gli ulteriori tagli alla spesa sanitaria (1 miliardo).

Non mancano misure positive, come la reintroduzione per il biennio 2013-2014 della detassazione dei salari di produttività (1,6 miliardi), ma troppi sono gli impegni solo sulla carta: il recepimento della direttiva europea sui tempi di pagamento alle imprese sia dai privati che dalle amministrazioni pubbliche; le dismissioni attraverso un fondo immobiliare; la riforma del titolo V della Costituzione, volta a riportare nel campo della legislazione statale alcune competenze quali le grandi reti infrastrutturali, l’energia e il commercio con l’estero, ma che trattandosi di un disegno di legge costituzionale richiede un doppio passaggio parlamentare.

Dal governo è arrivato anche il sì ufficiale alla Tobin Tax. In dubbio fino alla fine, il premier non ha voluto dare un dispiacere a Merkel e Hollande, che sulla tassa hanno investito molto politicamente. 

Un esercizio di autolesionismo, perché le transazioni emigreranno sulle piazze più convenienti (a Londra già brindano!) e demagogia allo stato puro, perché a pagarla, ovviamente, come ogni tassa sul consumo, non saranno i grandi speculatori internazionali, il fantomatico “settore finanziario” colpevole della crisi e le perfide banche, che escogiteranno i modi per eluderla o cambieranno piazza, ma i consumatori finali, cioè i risparmiatori, che investano in proprio, o attraverso fondi pensione e fondi comuni.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:09