Contrada contro tutti. L'intervista

Afferma di non aver mai nutrito sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di alcuno; sostiene di sentirsi, più che un capro espiatorio, un obiettivo facile da colpire per coprire le inefficienze di un sistema. Si augura che la verità sulla sua vicenda sia ristabilita, perché «io non ho commesso i fatti che mi sono stati attribuiti». Si è sempre sentito un uomo dello stato, anche quando era in carcere, «perché se dovessi rinnegare questo attaccamento dovrei dichiarare il fallimento della mia vita». Bruno Contrada, condannato a dieci anni di reclusione con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo averne scontati otto dei quali quattro ai domiciliari per le sue condizioni di salute, parla finalmente  da uomo libero. Un «uomo legato alle istituzioni», come continua a definirsi, che non ha nessun sassolino da togliersi dalle scarpe ma indosserebbe volentieri gli scarponi dei fanti della Prima guerra mondiale con 48 chiodi per dare, metaforicamente, un calcio a qualcuno.

Chi ha voluto colpire Bruno Contrada?
Innanzitutto quel nugolo di avanzi da galera (17 i “pentiti” che lo hanno accusato, ndr), i peggiori criminali della mafia siciliana, killer, autori di delitti efferati. Giovanni Brusca, per esempio, cioè colui che azionò il telecomando che uccise il giudice Falcone, o Giuseppe, Pino Marchese, condannato all’ergastolo, poi a trent’anni e autore di stragi e di decine di omicidi, tra cui uno particolarmente cruento: uccise un suo compagno di cella all’Ucciardone a colpi di bistecchiera. Tommaso Buscetta, conosciuto per le sue imprese criminali e per la notorietà che gli ha dato “il pentitismo”.

E poi?
Diciamo, che al nugolo di questi pendagli da forca se n’è accodato un altro. Individui appartenenti anche alle istituzioni, alla polizia che per rancori, giustificati o non, o anche per antipatia personale, mi hanno accusato. D’altronde chi svolge una determinata attività come la mia oltre a crearsi amici fraterni si fa anche tanti nemici. Persone che hanno colto il  momento per scagliarsi addosso ad un corpo ormai per terra sanguinante. Mai nessuno di loro prima del mio arresto aveva detto una sola parola su di me. E nonostante tutto questo non serbo odio o rancore verso nessuno. Voglio solo che si ristabilisca la verità. Non ho bisogno di nient’altro che di questo.

La sua vicenda giudiziaria potrebbe essere lo spunto per riportare all’attenzione il dibattito sui collaboratori di giustizia?
Il pentitismo in Italia, da più di vent’anni a questa parte, è un fenomeno di una complessità enorme, sul piano umano, sociale, giudiziario (sia nell’applicazione pratica che nella utilizzazione dei processi) e su quello della dottrina giuridica. È un fenomeno che è stato esaminato, criticato, esaltato, dibattuto da persone qualificate, insigni giuristi, sociologi e da cultori di varie scienze umane. Io ritengo che l’utilizzazione da parte dello stato di criminali, di collaboratori di giustizia, di pentiti, non nel senso etico della parola ma secondo motivi di opportunità e convenienza, cioè per sottrarsi a lunghe detenzioni o all’ergastolo e avere benefici pecuniari, è sempre un segno di debolezza dello stato. Voglio dire che quando lo stato per un complesso di motivi non riesce, con i mezzi tradizionali, a debellare un fenomeno criminale così grave allora ricorre a compromessi del genere, cioè all’utilizzazione di uomini che, per raggiungere i risultati di cui ho parlato, sono disposti a dare la loro collaborazione in cambio di benefici. Se i mezzi fossero stati sufficienti, e a mio avviso non lo erano, lo stato non avrebbe avuto bisogno di ricorrere al “pentitismo”. 

Quindi il problema non sta nella legge che istituisce i collaboratori di giustizia?
Riconosco che i pentiti hanno dato un notevole contributo alla lotta contro la mafia. Hanno dato la possibilità di scoprire delitti, di inchiodarne i mandanti e gli esecutori, di arrestare latitanti e tenere in galera i maggiori esponenti della mafia. Il vero problema è la gestione dei collaboratori di giustizia. I pentiti sono come un’arma che di per sé non è né positiva né negativa. Può essere usata per la difesa della patria, della società, della propria vita e di quella di altri, ma può servire anche per compiere omicidi, rapine a mano armata. È a secondo di chi la usa e come viene utilizzata che l’arma diventa positiva o negativa. È necessario, quindi, che i pentiti vengano gestiti con la massima attenzione, scrupolosità e coscienza. E l’opera di investigazione nella   ricerca dei riscontri  deve essere ancora più approfondita soprattutto quando le accuse sono rivolte a uomini che hanno combattuto questi criminali, denunciandoli, arrestandoli e diventando così i loro nemici atavici: i poliziotti, tra i quali io. Difatti, tra i pentiti che mi hanno accusato, dando l’impulso per imbastire il mastodontico processo a mio carico, ce n’erano molti che io avevo perseguito in ogni modo.

Una vicenda processuale alquanto complessa, la sua. Ma perché questa ostinazione nei suoi confronti? 
La mia vicenda giudiziaria deve essere contestualizzata negli anni in cui è avvenuta. Un momento in cui bisognava dimostrare molte verità ma anche teoremi, cioè di un’inefficienza dell’azione repressiva e preventiva dello stato nei confronti della mafia da parte della politica, della magistratura, delle forze dell’ordine ma anche della gente comune che si disinteressava a questo fenomeno. Solo negli anni successivi è sorto il consenso generale. Si è voluto sostenere questo teorema. È vero che nel corso di decenni, lo stato, e parlo della politica, ha sottovalutato il fenomeno della mafia. In alcuni periodi, anche con una certa giustificazione: c’era un’altra grande emergenza che metteva in pericolo la struttura dello stato, il terrorismo. Tutte le attenzioni erano rivolte a fronteggiare l’eversione, quando la mafia veniva ancora considerata un fenomeno localizzato in Sicilia e che non interessava l’intero apparato statale.

Quindi, si può dire che lei è stato un capro espiatorio di un sistema?
Io mi sono trovato in mezzo a tutto questo, al teorema dell’inefficienza dello stato nel suo complesso. Per tutti gli incarichi che avevo ricoperto nella lotta contro la criminalità organizzata e la mafia avevo, come dire, il “physique du role”, ero la persona adatta su cui appuntare queste accuse come responsabile di indubbie deficienze, mancanze dovute al sistema sociale e legislativo dell’epoca. Bisogna considerare che in quegli anni non avevamo i mezzi giuridici e materiali che sono subentrati nei periodi successivi. E, lo riconosco, forse eravamo  anche impreparati ad affrontare un fenomeno di così terribile impatto sulla vita del nostro paese. Come del resto non eravamo pronti nei primi anni del terrorismo eversivo contro il quale man man ci si è attrezzati. 

Cosa ne pensa del ricorso straordinario pendente in Cassazione contro la decisione con la quale la seconda sezione della Corte ha respinto l’istanza di revisione del suo processo?
La mia opinione è che la Cassazione non ritorna mai sui suoi passi. Ringrazio il mio avvocato, il dottor Lipera, che apprezzo per la sua tenacia, per il suo volere fare il possibile e anche l’impossibile, ma considero le sentenze della Cassazione come pietre sepolcrali. E come ho scritto nella copertina di un faldone che racchiude tutti i miei ricorsi: io non voglio essere Lazzaro e il mio avvocato non è Gesù.

Domani uscirà un libro-intervista “La mia prigione”, scritto insieme alla giornalista Letizia Leviti in cui lei ripercorre la sua ventennale vicenda giudiziaria. Un bisogno di raccontarsi, di fare conoscere le sue opinioni o cos’altro?
Non ho la presunzione di ritenere che questo libro possa fare rivedere o revisionare  il processo. Ma credo che possa dare un contributo alla conoscenza della verità, a dirimere dei dubbi. Certo non a convincere coloro che, per partito preso o per teoremi, sono i miei detrattori, ma per lo meno a tentare di far sorgere in loro qualche dubbio. Ho voluto dare delle spiegazioni,  raccontare la mia  vicenda e la mia enorme sofferenza di questi ultimi venti anni tra processi, tribunali, ricorsi. Una sofferenza che continua ancora adesso, nonostante io sia libero. Una sofferenza morale, quella della perdita di tutto quello che è stato lo scopo di una vita.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:05