Fornero, nuovo nemico di classe
Come si spiega il livore che suscita, quasi ad ogni sua uscita pubblica, il ministro del lavoro Elsa Fornero? Forse ad irritare è il suo distacco accademico; forse non le si perdona il pragmatismo con cui osserva una realtà del mercato del lavoro così diversa, lontana ormai anni luce, da quella fantasticata dai reduci dell’ideologia del “posto fisso” e della cultura assistenzialista; e forse incide una certa misoginia. Fatto sta che il ministro Fornero è oggetto di una demonizzazione mediatica e ideologica “a prescindere”, sembra ormai la vittima preferita di leader sindacali ed editorialisti alla ricerca di facili applausi e degli odiatori di professione che si aggirano sul web. Anche quando nel merito ciò che dice è difficilmente contestabile, piuttosto che ammetterlo, o quanto meno discuterne, aprire un dibattito, viene messa alla gogna per il suo modo di esprimersi, per le sue scelte lessicali, la frase o la parola molesta, e prontamente i media bollano l’episodio come “l’ennesima gaffe”. Ha suscitato più clamore quel termine, “choosy” (schizzinosi, esigenti), del clima intimidatorio che l’ha costretta a rinunciare ad intervenire ad un dibattito a Nichelino, nei pressi di Torino.
Eppure, questa volta, più che un’analisi il ministro ha elargito il buon consiglio che usava dare ai suoi studenti: ragazzi, apppena usciti dal mondo della scuola o dall’università, non siate troppo “choosy” nella scelta del primo impiego, non aspettate il posto ideale, entrate prima possibile nel mondo del lavoro e cercate di migliorare da dentro la vostra posizione, adeguandola alle vostre aspettative. Sembra un’ovvietà, eppure quella parolina – choosy – ha scatenato un putiferio. Ma il problema del ministro Fornero si può davvero ridurre ad una questione di mera tecnica comunicativa? Si tratta forse di usare un giro di parole più attento alle sensibilissime orecchie del politicamente corretto? Pensiamo di no. Temiamo che in quanto principale artefice delle due riforme che hanno, se non abbattuto, per lo meno messo seriamente in discussione tabù come pensioni d’anzianità e articolo 18, il ministro Fornero venga ormai identificata dalla sinistra statalista e antagonista come nemico ideologico da delegittimare con ogni mezzo, ad ogni occasione, strumentalizzando qualsiasi parola.
E questo nonostante la sua riforma abbia persino ecceduto nel contrastare gli abusi della flessibilità in entrata, a tal punto da reintrodurre nel mercato del lavoro un livello di rigidità incompatibile con l’attuale situazione economica. In un momento come questo, poi, è fin troppo facile, con la scintilla di una strumentalizzazione ideologica, scatenare gli istinti più demagogici del web. Non bisogna generalizzare ovviamente, e non ci pare che il ministro lo abbia fatto. Non tutti i giovani italiani di questi tempi sono “choosy”, ma di certo, soprattutto tra i laureati, il fenomeno della cosiddetta “disoccupazione d’attesa” – di coloro che aspettano piuttosto che accettare lavori che non corrrispondono alle proprie aspettative o formazione scolastica – esiste (anche perché evidentemente le famiglie sono in grado di mantenerli).
Secondo Unioncamere sarebbero addirittura 100 mila i posti di lavoro scoperti, e tra di essi figure professionali nient’affatto “umili”, come ingegneri, chimici, fisici ed esperti di marketing. La Cgia di Mestre stima che nonostante la crisi e l’aumento della disoccupazione giovanile, nel 2011 sono stati oltre 45 mila i posti per giovani fino a 29 anni che le imprese hanno dichiarato di non essere riuscite a coprire, sia per il gran numero di inserzioni senza risposta (il 47,6%), che per l’impreparazione di chi si è presentato (il 52,4%). Nella maggioranza dei casi si trattava di mestieri «tradizionali ad elevata intensità manuale», ma nient’affatto degradanti né mal retribuiti, e alcuni a tempo indeterminato: commessi qualificati; cuochi, camerieri, baristi; impiegati in studi professionali e nel settore turistico; parrucchieri ed estetiste; informatici e telematici; contabili; elettricisti; meccanici; tecnici della vendita; idraulici e posatori di tubazioni. Il problema, osserva il segretario della Cgia Bortolussi, è «la svalutazione culturale che ha subito in questi ultimi decenni il lavoro artigiano» e, dunque, occorre «rivalutare, da un punto di vista sociale, il lavoro manuale e le attività imprenditoriali che offrono queste opportunità», ma anche riavvicinare ad esse la formazione scolastica e non penalizzarle fiscalmente.

Aggiornato il 04 aprile 2017 alle ore 16:12