La ricerca della verità per Antonio Russo

Sono oltre 150 le sentenze emesse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la Russia per violazione dei diritti umani in Cecenia, e almeno 5mila persone sono scomparse in circostanze misteriose in questo Paese. È diventata, dunque, ancora più drammatica l’urgenza di fare luce sui gravi crimini commessi. Soltanto il 3 ottobre scorso, e per la prima volta dall’11 dicembre del 1994, cioè da quando ebbe inizio la prima guerra in Cecenia, le autorità russe hanno ammesso davanti alla Corte di Strasburgo di aver violato i diritti umani nel corso di operazioni militari svolte durante quel terribile conflitto.

Lo ha reso noto la stessa Corte nella sentenza di condanna emessa nei confronti della Russia per il bombardamento del villaggio di Aslanbek-Sheripovo, avvenuto il 17 febbraio del 2000. La sentenza ha un valore storico. Si tratta della prima volta che la Russia effettua un riconoscimento ufficiale dei propri crimini di guerra perpetrati nel corso del secondo conflitto russo-ceceno. I ricorrenti, in totale 18 abitanti del villaggio che durante i bombardamenti rimasero feriti o persero dei parenti, dovranno essere risarciti per un totale di 160mila euro. Sia le autorità russe che i ribelli ceceni, negli ultimi anni, si sono scambiati spesso accuse reciproche in tema di violazione dei diritti umani.

Tra i crimini di guerra che entrambe le parti dicono di aver subito ci sono anche rapimenti, omicidi, saccheggi e stupri. Per farsi un’idea delle atrocità perpetrate in oltre dieci anni di conflitto, basta sfogliare i rapporti di Amnesty International, di Human Rights Watch e le testimonianze di giornalisti come quelle di Anna Politkovskaja e di Antonio Russo sulle quali “Diritto e Libertà” ha ampiamente informato. Le forze russe hanno bombardato indiscriminatamente zone civili, e perfino strutture e personale medico. Ai giornalisti è stato continuamente rifiutato l’accesso in Cecenia. Quella guerra, infatti, doveva essere una guerra nascosta. Sempre secondo tali rapporti, a loro volta, i combattenti ceceni spesso minacciarono e talvolta uccisero membri russi dell’amministrazione civile e giustiziarono i soldati russi catturati.

Oggi la Cecenia è molto diversa da quella che, tredici anni fa, ci raccontava Antonio Russo; ma non per questo essa è un paese pacificato. Oggi gli ideali di libertà, di indipendenza, di emancipazione da uno sfruttamento durato oltre quattrocento anni hanno ceduto il passo allo jihadismo che siamo abituati a conoscere oggi, con le sue reti di finanziamento globali e con i suoi legami con al-Qaida. L’Islam in Cecenia ha sempre offerto un rifugio ideologico contro l’invasore russo. La leggendaria tenacia della resistenza cecena all’oppressore nel corso degli ultimi due secoli di lotta ha trovato forte ispirazione nella lotta dell’Islam contro l’invasore infedele, ma fino all’inizio della seconda guerra russo-cecena non vi è stato spazio per l’affermazione del fondamentalismo e del terrorismo internazionale. È solo grazie alla feroce repressione sferrata dal regime di Putin che sono dilagati estremismo e fanatismo ideologico che mirano alla costruzione di un grande emirato islamico nel Caucaso.

La guerra in Cecenia è solo ufficialmente terminata. La strategia di Mosca è stata quella di dividere i ceceni seminando odio e violenza. Kadyrov, il presidente filorusso, in questo ruolo è stato molto efficace e ha superato ogni limite. “La felicità è al servizio del popolo!”. Così recita una gigantografia del presidente Ramzan Kadyrov che accoglie i visitatori all’aeroporto di Grozny. Nella capitale cecena, accanto alle devastazioni di un decennio di guerra, sono sorti immensi grattacieli e case colorate. Macchine di lusso sfrecciano per le vie della città, tra i numerosi centri commerciali in stile moscovita. Nonostante la dubbia credibilità, questa immagine così propagandata – con il benestare del governo centrale – ha fatto in modo che la Cecenia smettesse di fare notizia, se non per le gesta dei servizi federali nella lotta al terrorismo islamico del Caucaso del Nord.

Eppure la Cecenia di Kadyrov non sembra essere molto diversa da quella descritta da Anna Politkovskaja, la cui brutale uccisione aveva quantomeno prodotto il risultato di far conoscere nel mondo l’insanguinata realtà della regione. Oggi la Cecenia presenta uno dei tassi di disoccupazione più elevati della Federazione russa, stimata al 40%. Il tasso di mortalità infantile tocca picchi del 60%. L’opera di ricostruzione ha interessato solo la capitale, lasciando la provincia nel baratro di un tasso di povertà tra i più alti di tutta la Federazione. Nelle periferie della rinnovata Grozny ci sono ancora migliaia di profughi rimasti senza casa durante la guerra. Tra gli ultimi dati emersi c’è quello sul massiccio consumo di droghe pesanti, soprattutto eroina, che arriva in Cecenia in uno dei principali flussi del traffico internazionale di droga.

Ancora oggi quando si toccano argomenti delicati, quando si toccano realmente politiche di governo, quando si denunciano le violazioni dei diritti umani e si documentano questi orrori, la vita dei giornalisti e dei loro cari è in pericolo. La violenza contro di essi diventa una barbara forma di censura. Quando si verificano omicidii di giornalisti, le indagini diventano lente o sono del tutto inesistenti, come è avvenuto anche per l’assassinio del giornalista ucraino Georgiy Gongadze. Nel 2009 è stata sequestrata e assassinata a Grozny Natalia Estemirova. Estemirova, membro della Ong Memorial, stava lavorando a un’inchiesta su casi di violazione dei diritti umani che definiva “estremamente sensibili”.

Le autorità cecene filorusse continuano ad accusare la prestigiosa Organizzazione non governativa per i diritti umani, “Memorial”, insignita del Premio Sakharov, di rendersi complice dei ribelli ceceni o di essere finanziata dai paesi occidentali. Recentemente l’organizzazione è anche stata condannata per il crimine di oltraggio all’onore del presidente ceceno Ramzan Kadyrov, accusato da Memorial di essere il mandante dell’omicidio Estemirova. Altri attivisti di Memorial sono stati uccisi come Zarema Saudoulayeva e Alik Djabrailov. In Cecenia hanno ammazzato scrittori, artisti, tutte le energie più forti, il potenziale del popolo, la gioventù, gli uomini, hanno troncato un’intera generazione. Ai posti di blocco facevano sparire i ragazzi giovani e in salute. Questo processo viene portato avanti anche ora che teoricamente non c’è la guerra.

Ufficialmente non vi è alcun conflitto; la guerra non sta attraversando una fase attiva, ma quello che hanno fatto negli anni precedenti è già abbastanza. La guerra ha causato più di 250mila vittime (su di una popolazione che non raggiungeva il milione di persone) e 200mila profughi sparsi per il mondo. Oggi non vi è la necessità di bombardare. Ecco perché è ancor più indispensabile parlare di giornalisti come Antonio Russo. Parlare di Antonio Russo significa parlare di coraggio civile, di giornalismo di guerra, di informazione, di verità, di diritto, degli ultimi, dei dimenticati, di informazione come testimonianza. Significa parlare di quelli che vivono la guerra in prima persona, perché la subiscono e ne soffrono per le gravi conseguenze.

Antonio Russo non lavorava per sé ma per l’umanità. Egli ebbe modo di dire in alcuni dei suoi rari interventi pubblici che era molto importante fornire documenti, fatti, per costringere la comunità internazionale a lavorare, tutta assieme, per fermare la guerra in Cecenia e che per questi motivi era lì, per informare e documentare a livello internazionale quanto succedeva in Cecenia e nel Caucaso. E in questo Antonio era molto radicale perché voleva che i diritti della persona diventassero Diritto. Parlare di Antonio significa parlare di guerre nascoste, dimenticate. Come era appunto la guerra in Cecenia. Guerre, come quella cecena, delle quali era impedito a chiunque di documentare l’orrore. Antonio Russo è stato il tenace cronista del ghetto di Grozny, è stato, secondo la definizione di Barbara Spinelli: “Una lampada accesa nel cuore del ghetto in fiamme”.

È stato assassinato il 16 ottobre 2000 per spegnere con la violenza uno dei pochi valorosi testimoni di una città rasa al suolo, come Varsavia nel 1944. Grazie ad Antonio Russo e ad Anna Politkovskaja i crimini contro l’umanità commessi in Cecenia da Putin, nella sua guerra nichilista di sterminio, non sono avvenuti a porte completamente chiuse. A tredici anni dal suo assassinio i responsabili non sono stati ancora assicurati alla giustizia, così come è avvenuto per la giornalista e attivista per i diritti umani, Anna Politkovskaja. Ho conosciuto Antonio Russo proprio negli anni in cui era inviato di guerra di Radio Radicale in Kosovo. Egli ha anche documentato per la rivista “Diritto e Libertà” questo suo appassionato lavoro sia da Pristina che dal Caucaso. Erano, quelli, i primi mesi di vita di Diritto e Libertà e lui ci incoraggiava e ci spronava ad andare avanti. Antonio era un cronista minuzioso, raccoglieva notizie e descriveva la spietatezza della guerra che ogni giorno, nell’indifferenza di tutti, produceva vittime e di tutto questo faceva una ricostruzione quotidiana: tanti morti, tanti feriti, tanti scomparsi, tanti profughi, in un assordante silenzio generale.

Amava mescolarsi e confondersi con le vittime fino a condividerne il quotidiano e il dramma della guerra. Come nel Kosovo, dove rimase, ultimo giornalista europeo, a raccontare la “pulizia etnica” da una casa nella Pristina vessata dai rastrellamenti dell’armata serba. Sparì da Pristina alla fine del marzo del 1999 mescolandosi a tutti gli altri in un treno di profughi diretto in Macedonia. Aveva documentato anche la Guerra dei Grandi Laghi, la mattanza tra gli Hutu e i Tutsi. E aveva documentato anche i sanguinosi scontri avvenuti in Algeria. Tredici anni sono trascorsi dal suo assassinio, da quando il suo corpo fu trovato, il 16 ottobre 2000, sulla strada che da Tbilisi porta al confine con l’Armenia, a 25 chilometri dalla capitale della Georgia, e a pochi chilometri da una basa militare russa. L’autopsia non trovò tracce di ferite da incidente stradale o da aggressione, ma i suoi organi interni erano distrutti.

Aveva ancora al collo una catenina con un crocifisso d’oro. Il suo appartamento di Tbilisi fu messo a soqquadro e risultavano mancanti la videocamera, il registratore, le cassette Vhs e i taccuini. Nulla più si è saputo sulla sua uccisione, non si è saputo chi l’abbia ucciso e quali siano stati i mandanti di tale assassinio. Sappiamo però che è stato schiacciato come un insetto, in perfetto stile Kgb, da chi in quei giorni, la Russia di Putin, tentava di imporre l’espulsione del Partito radicale dall’Onu, cioè di annullarne lo status di Ong, con l’accusa di appoggio al terrorismo ceceno. Il voto era fissato per il 18 ottobre 2000 ma quel giorno l’Onu respinse la richiesta russa. Egli è morto per contribuire a che si evitasse che la tragedia in atto in Cecenia si compisse fino in fondo. Nel suo ultimo intervento pubblico a una conferenza sui danni ambientali causati dal conflitto ceceno, tenutasi in Georgia, Antonio Russo aveva parlato di un probabile uso, da parte dei russi, di proiettili all’uranio impoverito in Cecenia e, nel corso di una telefonata aveva detto alla madre, pochi giorni prima della morte, di essere in possesso di una videocassetta dal contenuto esplosivo, nella quale si documentavano le torture perpetrate dall’esercito russo ai danni della popolazione civile cecena.

Lo stesso destino è toccato ad Anna Politkovskaja, giornalista russa e attivista per i diritti umani, venne uccisa con quattro colpi di pistola nell’ascensore del condominio dove abitava, nel centro di Mosca, il 7 ottobre 2006, per colpire la libertà di stampa. E a sette anni di distanza il suo assassinio resta ancora avvolto nel mistero. Anna Politkovskaja denunciava corruzione e violazione dei diritti umani in Cecenia. Due sospettati sono stati arrestati, ma non si è ancora riusciti a risalire al mandante né si conosce il movente. Libertà di informazione e ricerca della verità sono state l’ispirazione e la grande lezione di Antonio Russo e di tutti gli altri. Le sue profonde e appassionate convinzioni si traducevano in una rigorosa ricerca di verità ed esigevano una severa e continua verifica oggettiva, da grande giornalista.

L’orizzonte di Antonio Russo era quello della nonviolenza e della costruzione dello Stato di diritto e della democrazia nel mondo, con la creazione di quella legalità internazionale che è la vera garanzia di pace nel pianeta. Auspicava anch’egli un impegno serrato per la rimozione degli ostacoli che si frappongono “all’affermazione e alla difesa del Diritto naturale, storicamente acquisito”, di ogni individuo alla libertà e alla democrazia. Credeva, Antonio, in un giornalismo al servizio della verità. Anche a costo della vita, come per Anna Politkovskaja! Entrambi hanno servito le ragioni della verità e della libertà, coerentemente e coraggiosamente fino alla fine. Incuranti del pericolo, dell’ombra tenebrosa che incombeva e che poi li ha ghermiti. Senza però cancellare la luce di verità, che il loro coraggio, e il loro rigore, ha fatto risplendere nella coscienza del mondo! È nostro compito onorarne la memoria con le parole, con una informazione rigorosa e con l’impegno civile.

Aggiornato il 05 aprile 2017 alle ore 11:23