La Fiat torna in Italia e i mercati la bocciano

Il già ribattezzato “piano coraggioso” di Sergio Marchionne è stato bocciato dai mercati. Gli investitori hanno poco gradito la volontà dell’ad di Fiat-Chrysler di mantenere gli stabilimenti italiani, di garantire il riassorbimento di tutti i cassintegrati.

Gli investitori esteri (forse anche italiani) non condividono la volontà di reinvestire nel Belpaese, considerano la scelta contraddittoria: non dimentichiamo che il gruppo Fiat è ormai una società di diritto olandese, per la maggior parte delle proprie attività paga le tasse a Londra. Due punti di forza che hanno spinto gli investitori a dare fiducia a Marchionne, che coraggiosamente ha portato via il gruppo Fiat dall’Italia. Parimenti, gli stessi mercati avrebbero gradito una chiusura totale di tutti gli impianti italiani. Invece Marchionne ha fatto un repentino dietrofront, assicurando che la Jeep (prodotto di punta Usa) sarebbe stata prodotta negli stabilimenti del sud-Italia. Un piano industriale che di fatto ha girato le spalle alle aperture di credito di alcuni salotti buoni della finanza anglo-olandese, che non condividono le nostalgie per la palude italiana di Marchionne e John Elkann.

Così il mercato boccia il piano, non tanto per i vari dubbi sulla reale possibilità di centrare gli obiettivi indicati per il 2018, ma per la mancanza di indicazioni dettagliate, per i conti del primo trimestre 2014 (si è chiuso con una perdita netta di 319 milioni di euro) e, soprattutto, per l’errore recidivo di produrre in Italia. Il titolo del Lingotto aveva negli ultimi tempi superato ogni aspettativa, correva più di una tigre asiatica, ma oggi Marchionne ha deluso gli investitori: di fatto ha dato speranze agli operai italiani e questo non è stato gradito all’estero. Un ribasso così non lo si vedeva da decenni, e 86 milioni di azioni Fiat-Chrysler sono passate di mano: 6,8% del capitale non è più di chi ha dato fiducia alla fuga della Fiat dall’Italia, e così vanno in fumo 1,24 miliardi di euro.

Circa 48 ore fa la Consob ha temporaneamente vietato le vendite allo scoperto sul titolo Fiat. Anche Exor, holding del gruppo Agnelli, ha ceduto l’1,96% del suo pacchetto. A metterci la ciliegina sulla torta ha provveduto il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che ha parlato della volontà di Marchionne di “dare centralità agli stabilimenti italiani e valorizzare l’Alfa Romeo in Italia”.

È evidente che di Marchione oggi non si fidino né gli investitori esteri né, tantomeno, i dipendenti italiani: i primi erano stati illusi con una chiusura totale degli impianti nel Belpaese, col trasferimento di tutte le produzioni tra Usa, Regno Unito e Paesi emergenti, mentre ai secondi (gli italiani) era stato detto che a Torino sarebbe stato prodotto un suv con marchio Maserati, che l’Alfa Romeo non sarebbe fuggita a Detroit e che nessun pezzo Ferrari sarebbe stato prodotto in Inghilterra come fosse “made in Italy”. Va detto che, secondo gli addetti ai lavori, se Marchionne avesse dato retta alla Fiom oggi la Fiat non produrrebbe nemmeno biciclette.

Ma si comprende anche lo scetticismo di Maurizio Landini (segretario generale della Fiom), che senza mezzi termini ammette che “la credibilità del piano va realmente confrontata e verificata, non si sa dove vengano reperite le risorse per finanziare il piano”. Anche Giorgio Airaudo (ex sindacalista e oggi deputato di Sel) esprime molti dubbi: “Tutti gli otto piani presentati da Marchionne in Italia non si sono mai conclusi; sono stati sempre rinviati nei tempi e negli effetti e ridotti negli investimenti”. Ergo, gli investitori esteri possono benissimo ancora scommettere sulla chiusura degli impianti italiani, soprattutto sul trasferimento di Alfa e Maserati a Detroit. Invece i commenti degli altri sindacati danno ragione a chi ha bocciato il titolo Fiat: “Le premesse per il futuro del gruppo automobilistico Fca sono positive”, dice Luigi Angeletti (segretario generale della Uil). E Rocco Palombella (segretario generale della Uilm) ributta la Fiat nella palude sindacale italiana: “È un piano importante per tutto il gruppo Fca, per l’azienda in Italia, per gli stabilimenti del nostro Paese e per quanti ci lavorano; la produzione automobilistica cambia marcia”. Non sono mancati i commenti di chi vede ricadute positive su tutta la filiera industriale torinese.

Ma tutti dimenticano che Marchionne ha potuto attrarre investimenti con la coraggiosa operazione Fiat-Chrysler, che oggi si dovrebbe appellare Chrysler-Fiat in onore di chi vi ha messo i soldi. Non certo un atto di generosità, ma frutto di una promessa fatta da Marchionne due anni fa alla presenza dei presidenti Obama e Monti (allora premier italiano): ovvero la prospettiva di chiudere ogni impianto in Italia dopo aver trasferito tutte le produzioni in Usa, Regno Unito e Paesi in via di sviluppo. Oggi Marchionne fa marcia indietro, dimenticando che, nemmeno tre mesi fa, aveva avuto il coraggio di dire a John Elkann che necessitava dismettere ogni partecipazione nel Corriere della Sera e, soprattutto, si poteva anche cedere la Stampa. L’amministratore delegato aveva giustificato le sue parole con i fatti, ovvero che la Fiat non ha più nulla a che fare con l’Italia, perché è una multinazionale di diritto olandese che paga le tasse in Inghilterra. È difficile comprendere perché Marchionne abbia sentito il richiamo delle origini. Di quell’Italia da cui tutti gli imprenditori sognano di fuggire, perché “non c’è più l’opportunità di remunerare il fattore lavoro in Italia” per usare la frase di un industriale venuto a tenzone tivù con Landini alle ultime elezioni politiche.

Eppure tra gli industriali di medie dimensioni serpeggia la voglia di cambiamento, ma perché questo avvenga uno di loro sostiene “necessiterebbe mettere per strada entro l’autunno 2014 tra i 400 ed i 600mila operai, e poi vedi come s’addrizza la baracca”. Un segnale forte alla politica, all’insulso buonismo sindacalsinistro: demolire tutto per ripartire da zero con nuove regole.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:18