La Gianotti, il Cern e le quote rosa

La nomina di eccellenza della scienziata Fabiola Gianotti alla direzione generale del Cern è un’ottima notizia che ha ingenerato in tutti un senso di commozione, felicità e orgoglio.

Il fatto che un’altra fisica italiana, dopo Edoardo Amaldi che fu tra i fondatori del Cern, dopo Carlo Rubbia e Luciano Maiani che l’hanno preceduta nella direzione, guiderà il più importante laboratorio europeo di fisica delle particelle è la prova che competenza, serietà e tenacia declinate al femminile possono esser premiate. Senza alcun bisogno di quote di genere di protezione. Basta, però, metter piede oltre confine.

Il tentativo dei ministri Gentiloni e Giannini e delle altre istituzioni di apparentare il nostro Paese ad una vittoria che, secondo il neo ministro degli Esteri, “rende fiera l’Italia per tutti gli scienziati che lavorano nel mondo” e secondo quello dell’Università è “un grande successo per la scienza italiana” è apparso, però, tanto goffo quanto più è sotto gli occhi di tutti che nel caso della Gianotti, “Italia e niente l’è parente”. Poiché si tratta di un percorso individuale, iniziato vent’anni fa, quando la nuova direttrice del Cern se ne andò a Ginevra per dedicarsi alla fisica delle particelle in questo straordinario laboratorio scientifico internazionale dove, come ha spiegato lei stessa, “la scienza è al servizio della pace” e la cui squadra internazionale, dal corpo docente ai ricercatori fino agli studenti, con passione, competenza e impegno lavora a progetti “anche” italiani, conseguendo risultati straordinari.

Se, dunque, il nazionalismo di per sé non è affatto un tratto negativo, che almeno poggi su presupposti in grado di giustificarlo. E, francamente, non è questo il caso. Insomma, l’esperienza scientifica e lavorativa della Gianotti sembra proprio potersi riassumere così: a Ginevra una donna riesce a venir valorizzata per le sue oggettive competenze di individuo, in Italia no. O raramente. In parte per via di una prevalente indisponibilità culturale dell’universo femminile italiano ad impegnarsi in un’attività di lobby capace di far leva sulle loro effettive professionalità e risorse che finisce per rendere vana qualsiasi “deportazione in massa di eserciti rosa in qualunque ambito lavorativo”. Frutto di una commistione tra sete di riscatto e rassegnazione ancora troppo radicata e che finisce con porre le donne l’un contro l’altra armata. In parte perché abbiamo ciclicamente preferito affrontare il problema della parità di genere adottando la via della regolamentazione coatta.

La politica italiana si è ottusamente avvitata (che ci sia o meno riuscita è irrilevante) sul totem delle quote di genere come forzosa accomodatura, strumento (demagogico e di ritorno mediatico) di immissione di riserve femminili in ogni settore della società oltre che di avvilimento dell’individuo. Un appartheid di genere che, oltretutto, in un sistema sociale e politico come è ancora il nostro, incardinato sulla cooptazione e scarsamente incline a riconoscere il valore, contribuisce a mortificare la tanto invocata ma raramente applicata meritocrazia. Eppure, c’è da giurarci, nonostante la sonora bocciatura che a marzo scorso le quote rosa hanno subito alla Camera, il pensiero mainstream più prima che poi le riproporrà nel dibattito politico. Ecco, la nomina di Fabiola Gianotti al Cern ha dimostrato che se ne può fare definitivamente a meno, ha confermato che una donna vale ben al di là della sua appartenenza ad un genere. A riprova di quanto sia possibile rispettare un sacrosanto principio sacro nel mondo del lavoro, sia esso pubblico o privato: il riconoscimento di un rapporto fiduciario in base all’impegno ed ai risultati prodotti.

Imporre ai vertici di giornali, partiti, enti locali o grandi istituti bancari o di ricerca le famigerate quote di genere significa semplicemente confermare il meccanismo della cooptazione, dandogli solo una parvenza di regolamentazione. Che raramente aiuta le donne a sfondare il famigerato soffitto di vetro, come dimostra l’inserimento di volti femminili da parte di Renzi alla presidenza di grandi aziende pubbliche, in applicazione del provvedimento sulle quote di genere che dal 2012 impone che ai vertici di società quotate in borsa o a controllo pubblico e nei collegi sindacali sia presente almeno un terzo di donne, donne rimaste però fuori dai Cda, ossia dai ruoli decisionali. La fotografia della squadra di Governo conferma poi che sulla selezione di molte aleatorie rappresentanti femminili dell’esecutivo i criteri di merito e competenza sono stati abbondantemente sacrificati a favore di una evidente cooptazione incardinata su ben altre motivazioni.

La sfida, dunque, al di là di soluzioni ingannevoli e fasulle, va affrontata alla radice ed è quella di sconfiggere una visione politica e culturale arretrata (il voto segreto di qualche mese fa per affossare le quote alla Camera ne è stato d’altronde una rappresentazione) e magari individuare concretamente provvedimenti e cambiamenti strutturali da adottare per evitare che tutto il welfare seguiti ad esser scaricato sulle spalle delle donne (al riguardo sarebbe interessante verificare a che punto siamo nei confronti della la direttiva 54 della Comunità europea). I segnali arrivati finora seguitano a non essere incoraggianti, se si considera che dopo la “scomparsa” del cosiddetto tesoretto di 4 miliardi del 2011, ricavato dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne e destinato al fondo strategico per le politiche di conciliazione tra vita familiare e quella lavorativa oltre che al sostegno ai non autosufficienti, anche il Governo Renzi aveva inizialmente tagliato i fondi per le persone non autosufficienti. Per poi esser costretto, a seguito delle accese polemiche sui tagli della legge di stabilità, ad una clamorosa marcia indietro, che al momento è solo un’altra promessa.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:02