Ilaria Cucchi   “inviata” a giudizio

La giostra delle contestazioni e delle polemiche nel nostro Paese gira sempre veloce e le brevi pause che si concede ad intervalli piuttosto regolari hanno l'unica funzione di far salire a bordo nuovi accoliti delle contumelie. La scrittura di Ilaria Cucchi nel programma di Rai 3 “Questioni di famiglia”, di cui sarà una delle inviate, è soltanto, in ordine temporale, l'ultimo motivo di scandalo su cui si è alzata una bufera di reazioni che ancora una volta fotografano, a prescindere dalla spartizione di torti e ragioni nel merito, il diffuso istinto da tricoteuse che alligna nel nostro Paese.

La Cucchi ha dato, tra l'altro, prova di sincerità ammettendo di esser stata scritturata “grazie a mio fratello”. Nessuna finzione, nessuna ipocrisia, dunque, di quelle, tanto per esser chiari, cui sono costrette ad abbeverarsi quelle che Emma Bonino a proposito delle quote rosa definì a suo tempo “le signorine provenienti dalle varie scuderie” e che sono visibilmente estranee a qualsiasi selezione per merito. La giostra deve però continuare a girare. Anche spesso nel senso della strumentalizzazione 360 gradi. E sulla Cucchi, cui, senza dubbio, non ha difettato tempismo nonché una dose di spregiudicatezza e secondo molti impudicizia nel cogliere al volo l'occasione offertale, è piombata l'accusa, fin troppo agile da lanciare e anche un tantino demagogica, di aver trasformato la sua tragedia familiare in occasione di profitto.

Le polemiche sono poi impennate anche a seguito della pressoché contestuale ufficializzazione della cifra, un milione e 340mila euro, che l'ospedale Sandro Pertini verserà alla famiglia del fratello di Ilaria, Stefano, per il risarcimento del danno conseguente alla sua morte. Nello scagliarsi contro l'esito della contrattazione sull'indennizzo, previsto dalla legge come percorribile sostituzione della causa civile, si dice, quei soldi pagati dall'ospedale per evitare di essere inquisiti, saranno prelevati dalle tasche dei contribuenti che pagano le Asl. Gioverebbe ricondurre le reazioni ad avvenimenti, che per loro natura richiamano i più dilatati istinti al linciaggio e alla gogna, nell'alveo del ragionamento razionale.

In questo caso, che sia capace di metter sul banco su cui si è scaraventata l'imputata, anche due ordini di considerazioni. Nella società della comunicazione è automatismo collaudato e “normale” (e soprattutto proficuo) l'utilizzo del volto noto che si è reso visibile grazie a qualche battaglia o per una qualsivoglia altra ragione. A termine di legge e nella cultura civile del Paese è legittimo che i parenti delle vittime di tragedie derivanti da altrui responsabilità rivendichino il risarcimento dei danni materiali e morali. Bene o male se si accetta il principio condiviso del risarcimento danni è fisiologico che qualcuno lo rivendichi e conduca battaglie per trasformare il suo caso in un'azione politicamente significativa. Rendersi ancor più visibile è un espediente, uno strumento ulteriore per realizzare questo obiettivo.

Che le carriere televisive e politiche in veste risarcitoria siano detestabili, poi, è un altro discorso. E' quindi legittimo deprecare la professionalizzazione del dolore e che su vicende tragiche si possano costruire carriere personali col rischio, tra l'altro, di oscurare le stessa ragione ideale per cui si combatte e la giusta rivendicazione del diritto alla chiarezza. Specialmente su una morte le cui indagini sono evidentemente rimaste ostaggio del sigillato corporativismo del sistema. Ma sarebbe un bene non alimentare ed esasperare il linciaggio diffuso, così tanto per provare a scantonare il rischio reale di dividere calvinisticamente la società in una parte corruttibile e arrivista e in un'altra buona e giusta.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:02