La Riforma della Rai nella bufera renziana

La bufera sulla Rai apre nuovi e vecchi scenari. La coppia Renzi-Boschi difficilmente sarà capace di convincere a firmare il decreto legge l’attuale capo dello Stato, quel Sergio Mattarella che da ministro del governo Andreotti si dimise nel 1990 assieme ad altri 3 ministri della sinistra Dc demitiana non condividendo i contenuti della Legge Mammì che sanzionava il duopolio Rai-Mediaset come si era creato nel mercato dopo gli anni bui di etere selvaggio.

La riforma della Rai, come riconoscono in molti, è necessaria. Ma, come osservano i grillini della Commissione di vigilanza, “il solo organo legittimato a cambiare una legge che regola il servizio pubblico radiotelevisivo è il Parlamento, come avviene in tutti i Paesi democratici”. I pentastellati polemicamente aggiungono che “se la Rai non può essere disciplinata da una legge che si chiama Gasparri, è anche vero che non può essere riformata da un decreto che si chiama Renzi”.

Il botta e risposta andrà avanti. Se il Premier invece di laurearsi in giurisprudenza a Firenze nel 1999 con una tesi sul sindaco Giorgio La Pira avesse studiato legge all’ateneo di Siena avrebbe conosciuto due illustri professori di Diritto costituzionale: il professor Paolo Barile (anche lui legato alla sinistra Dc) e il suo allievo Enzo Cheli, diventato vicepresidente della Consulta, consigliere di amministrazione della Rai e presidente della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (1997).

In attesa di varare, se del caso, la riforma Rai per decreto potrebbe leggersi alcune osservazioni del professore in merito al fatto che finché la Rai resta un’azienda pubblica è vincolata dalle tante sentenze della Corte Costituzionale che si è pronunciata sui criteri del diritto all’informazione, sul pluralismo, sulla par condicio in periodo elettorale. E, come azienda pubblica, non è come dice Renzi “nelle mani della Corte dei Conti”, la quale però in base all’articolo 100 della Costituzione partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria”. La quasi totalità del capitale Rai appartiene al Tesoro. La Commissione parlamentare di vigilanza ha dato alcune indicazioni sulla riforma Gubitosi anche in vista del rinnovo della concessione Stato-Rai del 2016 e della scadenza del Cda. Il monopolio Rai fu giustificato con il fatto che le frequenze disponibili sull’etere erano di un numero limitato. Oggi non è più così. Con due sentenze del 1974 e 1976 la Corte ha riconosciuto l’articolo 21 come il fondamento di un più ampio diritto non solo per le espressioni del pensiero su carta stampata, ma anche per ogni altro mezzo di diffusione. Due sentenze fondamentali per la libertà di stampa e la vita politica italiana. Sono del 2001 le nuove norme sull’editoria che comprende anche la radiodiffusione sonora o televisiva.

Il punto centrale resta la sentenza n. 105 del 1972, in cui la Corte stabilisce che esiste un interesse generale all’informazione indirettamente protetta dall’articolo 21 che implica, in un regime di libera democrazia, pluralità di fonti d’informazione, libero accesso alle stesse, assenza di ingiustificati ostacoli legali anche temporanei alla circolazione delle notizie e delle idee. Secondo il professor Enzo Cheli il diritto all’informazione si è venuto intrecciando con una sorta di teoria generale della democrazia. La riforma del servizio pubblico radiotelevisivo ha conosciuto varie articolazioni e leggi: la prima quella n. 103 del 1975 (nacque Raidue), la seconda è la cosiddetta Legge Mammì (n. 233 del 1990), poi la Legge Meccanico diretta a garantire una equilibrata distribuzione delle risorse tecnologiche ed economiche e infine “eccoci” alla legge n. 112 del 2004. È la cosiddetta Legge Gasparri (allora ministro delle comunicazioni) destinata soprattutto ad orientare il passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale.

Nel giro di un quarantennio, osserva Cheli, che riassume la storia complessa e tormentata del nostro sistema radiotelevisivo vediamo intrecciarsi 4 leggi di sistema con altrettante “sentenze d’indirizzo” del nostro organo di giustizia. In questo quadro, gli orientamenti più innovativi sono quelli che emergono lungo l’asse di tre direttrici fondamentali: 1) Il riconoscimento dell’esistenza di un diritto all’informazione inteso come risvolto passivo della libertà di informazione; 2) Individuazione del pluralismo come valore primario all’interno dell’intero sistema dell’informazione; 3) La definizione dei caratteri fondamentali del servizio radiotelevisivo inteso come “servizio pubblico essenziale” ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione, ma destinato ad operare entro la cornice costituzionale della libertà d’espressione del pensiero (articolo 21) e della libertà d’impresa (articolo 41). C’è quindi una monumentale dottrina elaborata dalla Corte che non può essere smantellata da un decreto legge governativo. La Corte correla il diritto all’informazione agli obblighi contrapposti della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo. I valori fondamentali della forma di Stato esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e che si sviluppi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale. Da qui l’esigenza del pluralismo, dell’obiettività e imparzialità dei dati forniti, della completezza, della correttezza e della continuità dell’attività informativa, del rispetto della dignità umana e degli altri valori primari garantiti dalla Costituzione. Da ciò deriva il dovere per lo Stato di garantire le condizioni di un sistema informativo fondato su una pluralità di fonti d’informazione in libera concorrenza tra loro.

Compito del servizio pubblico è di dare voce, attraverso un’informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata nelle sue diverse forme di espressione a tutte o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali, culturali presenti nella società secondo i canoni del pluralismo. La Rai può essere un punto di riferimento culturale in Europa. Ma sulla base di questi criteri non come dice Renzi legata ad una visione di parte “dell’identità educativa e culturale diametralmente opposta a quella di Gasparri”. La Rai è di tutti. Altrimenti addio servizio pubblico.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:23