Orlando, garantismo e “populismo penale”

Intervenendo ad un convegno la scorsa settimana, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha fatto alcune considerazioni interessanti sul tema del garantismo e del populismo penale. Intanto ha ammesso, ma non ci voleva molto visto come vanno le cose da qualche decennio sul tema della giustizia, che “la politica da sola non ce la fa. Se vogliamo affermare i principi del garantismo nel nostro Paese c’è bisogno che altri diano una mano, e che lo facciano i magistrati soprattutto”, questo perché “riscuotere consenso con le battaglie garantiste è difficile, ecco perché la politica non può condurle da sola”. In secondo luogo ha precisato, e questo è sicuramente una affermazione più coraggiosa, visti i tempi, che “il garantismo si afferma come risposta ai sistemi autoritari”.

Non solo, dando la giusta dimensione costituzionale al termine garantismo, il ministro l’ha collegato “al principio di non colpevolezza, al giusto processo, alla funzione rieducativa della pena ed alla autonomia della magistratura”, ed in questa maniera ha mostrato di aver ben chiaro che l’accezione corretta di quel termine non è una riduttiva proposizione attorno alla quale si raccolgono i pasdaran di una giustizia molle, ma un vero e proprio programma di politica penale. Una presa di posizione rilevante poiché proviene da chi siede sulla poltrona di via Arenula ed è anche un autorevole esponente del partito di maggioranza.

Circostanze a cui si deve aggiungere che Orlando è una persona seria ed un politico cauto, le cui dichiarazioni sono sempre il frutto di una attenta valutazione dell’impatto che le stesse possono avere. Ciò detto, e aggiunto per di più che a lui si deve quel poco di buono che fin qui è stato prodotto in tema di giustizia nel corso di questa legislatura, resta la circostanza che bisogna intendersi sui termini e la portata di tali affermazioni, e soprattutto se esse siano conseguenti con l’azione politica dell’attuale Governo. Il ché significa parlare del “populismo penale”, cioè l’altra faccia del consenso che difficilmente si coglie quando in politica ci si dichiara, e ci si comporta, da garantisti. Ora, se c’è chi utilizza il populismo penale, questo è sicuramente il Governo Renzi. La legge che è stata appena licenziata in tema di corruzione lo dimostra ampiamente.

Quella legge, infatti, altro non è che un sacrifico rituale offerto sull’altare della piazza, reale o mediatica, contrappuntato da un parossistico innalzamento di pene e da una illogica riduzione all’accesso al patteggiamento. Peraltro, intervenendo a poco più di due anni dalla riforma Severino, questa legge si dimostra, anche nei tempi, forgiata al solo scopo di rassicurare la pubblica opinione rispetto ad un fenomeno, quello della corruzione, che non si riesce a contrastare. Il risultato, però, è paradossale. Intanto va ricordato che la stretta sanzionatoria, come il massiccio ricorso alla risposta penale, non si è mai dimostrata, in nessun Paese, risolutiva del problema, e che semmai gli studi, anche di carattere internazionale, dimostrano che la curva della corruzione, in qualsiasi società civile, è legata alla scarsa trasparenza, ovvero alla complicatezza dei meccanismi amministrativi piuttosto che alla durezza della pena.

Ciò documenta che il miglior antidoto alla corruzione è la semplificazione e la controllabilità delle procedure, non certo l’introduzione di sanzioni draconiane. Tanto che si può ben dire che, sul terreno della “lotta alla corruzione”, molto di più frutterà l’abolizione della necessità di richiedere autorizzazioni amministrative anche per spostare un muro di una abitazione, che non gli strepitosi aumenti di pena per i reati contro la Pubblica amministrazione appena licenziati. Peraltro - anche a voler ragionare solo in termini di pura repressione penale - è sempre necessario mantenere una certa coerenza sistematica ed una dosimetria delle pene astratte che risulti rispettosa, come ci ricorda proprio Orlando, della funzione rieducativa della pena, altrimenti si rischia di trasformare il diritto penale in una grida manzoniana il cui unico effetto certo è quello di rafforzare il potere, già vasto, delle Procure nel corso delle indagini, salvo essere ridimensionato, in sede applicativa, da giudici a cui ripugnerà applicare pene troppo elevate rispetto alle concrete fattispecie.

E basta guardare uno degli esiti paradossali che sono il frutto della nuova legge per rendersene conto. Dal 14 giugno prossimo, data di entrata in vigore della disposizione, come è stato acutamente notato da uno studioso, Andrea R. Castaldo, su Il Sole 24 ore, “il dirigente televisivo che induca una velina a versare denaro a terzi promettendole la parte in uno spettacolo televisivo rischia una condanna, per induzione indebita, ad una pena che va da un minimo di 6 anni ad un massimo di 10 anni di reclusione, mentre l’autore di una violenza sessuale se la caverà con una pena da 5 a 10 anni”.

Un effetto ancor più paradossale se ci si sposta dal terreno della “emergenza corruzione” a quello, sempiterno, dell’“emergenza mafia”. Anche qui il populismo penale ha colpito duramente facendo passare la pene, per i capi o promotori di una associazione mafiosa, dai 9 previsti nel minimo precedentemente agli attuali 12, e dai 14 previsti nel massimo agli attuali 18. Pene che si innalzano ancora se l’associazione ha a sua disposizione armi, giacché si passa dai 12 anni previsti nel minimo in precedenza agli attuali 15, e dai 24 per il massimo agli attuali 26.

Attenzione, sono ben conscio di citare una fattispecie di reato che viene ritenuta gravissima e che suscita riprovazione unanime, resta però il fatto che quando si raggiungono picchi sanzionatori di tal fatta bisogna rispettare il principio di ragionevolezza delle norme penali, non lasciarsi guidare solo, qui ci vuole, dall’irrazionalità o da un occhiuto populismo. Perché, ciò deve essere ben chiarito, queste sono le pene che conseguono al riconoscimento del reato associativo che si consuma anche senza che alcuno dei reti fine (omicidi, rapine, estorsioni, corruzioni e via dicendo) venga posto in essere. Ed anche qui, se si considera che il Codice Rocco prevede una pena minima di 21 anni di reclusione per l’omicidio, o che la rapina semplice prevede una pena da 3 a 10 anni, mentre quella aggravata va da 4 anni e 6 mesi a 20 anni, c’è una contabilità che non quadra nelle scelte del legislatore. E non ci vengano a dire che il Codice Rocco è troppo garantista. Fin qui siamo all’aritmetica del populismo giudiziario, ma c’è di più come dimostra la vicenda del reato di omicidio stradale che prima dell’estate sarà licenziato, con magno gaudio, dal Parlamento tutto. Sarà questo un reato che introdurrà pene altissime per un comportamento, di nuovo disprezzabile quanto si vuole, ma che è comunque connotato da un elemento psicologico diverso dal dolo. Anche in questo caso si prevederà un picco sanzionatorio, tanto nei minimi che nei massimi, che non terrà conto della profonda differenza che deve sussistere tra un comportamento deliberato e volontario ed uno trasgressivo di norme di cautela ma non doloso.

Le pene di cui si discute saranno talmente alte, rispetto ad un fenomeno criminologico che può riguardare una vasta fetta della popolazione, che indurranno, automaticamente, un effetto criminogeno: piuttosto che rischiare la morte civile ed un lungo periodo di carcerazione anche per una semplice violazione delle norme sulla circolazione stradale, saranno in molti a non prestare soccorso a seguito con incidenti con vittime. Ciò, peraltro, di fronte ad un fenomeno, quello degli incidenti stradali, che secondo le statistiche attuali è in flessione da anni, e dunque fonda il suo crisma emergenziale solo nelle campagne di stampa. Attenzione, già abbiamo sperimentato una vicenda simile, molti anni fa, avvicinando le pene per il sequestro di persona a quelle per l’omicidio, con l’effetto paradossale di rendere ancor più difficile la liberazione dei sequestrati.

E ciò ci riporta al tema di fondo: cosa è il populismo penale, chi lo alimenta, chi deve resistergli. Il populismo penale è la risposta razionale e demagogica ad un riflesso irrazionale della pubblica opinione sui temi legati alla conformazione del sistema penale. Esso viene alimentato tanto dalla cattiva informazione quanto dalla mancata conoscenza, da parte del legislatore, dei collegamenti sistematici che il diritto penale deve mantenere, pena la sua intrinseca incoerenza e la sua stessa ineffettività. Esso conviene a chi cerca il consenso, ma rifiuta la responsabilità delle scelte in questa materia. Solo la buona, coraggiosa, politica può resistergli... Speriamo che Orlando se la cavi in futuro, per ora non sembra.

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:35