I “Selfie” della gleba

La società, quella italiana in particolare, ormai nega i propri rifiuti. E anche i propri problemi. Li mette da una parte. Se possibile li getta sul ciglio della strada come una lattina di Coca-Cola da un’auto in corsa. Funziona così. E partendo da questo dato di fatto che riguarda tutti noi è anche più facile capire il problema della povertà, dell’emarginazione e dei rifugiati politici ed economici in Europa e qui da noi. È qualcosa, ma anche qualcuno, che rompe. Che nemmeno si fa la fatica di cercare il cestino più vicino. E che quindi per pigrizia si getta per strada. Basta sentire ogni giovedì a Radio Radicale verso le 19,30 la rubrica “Radio Carcere”, seconda sessione settimanale, la prima essendo dedicata a Marco Pannella, per rendersene conto.

La storia triste “media” è quella di un povero Cristo che a dieci anni dalla commissione di un reato neanche particolarmente grave, ricettazione, furto, truffa, si vede presentare il conto a casa a scoppio ritardato. Famiglia distrutta, lavoro perso e altro rifiuto umano buttato nel pozzo comune. O dovrei dire, la fossa comune? Di tutto questo ovviamente i giornali parlano ad intermittenza e solo se si può montare un caso per fare audience. Nella sostanza non frega un cazzo a nessuno. Ora io, che vivo sprofondato nella mia tristezza e nella mia follia di “emarginato forzato nonché di esodato non inculato”, mi arrabbio ancora di più quando sento le storie che raccontano generalmente ex detenuti a Riccardo Arena. Perché se la società italiana “nega” i propri rifiuti, umani e del mondo minerale o animale, la medesima società alla fine nega se stessa. Io non posso neanche fare a meno di notare che l’uso compulsivo dei social network è stato indotto, anche sulla pelle del sottoscritto, a partire dal biennio della crisi della Lehman Brothers: 2007-2008.

Inizia la crisi e inizia la fase del rincoglionimento civile delle masse attraverso un bombardamento di informazione eterogenea e spesso un bel po’ mistificata. Tutti sanno tutto di tutto e di tutti e nessuno sa più nulla della realtà che lo circonda e di se stesso. Ti trovi povero e disoccupato e neanche sai come è accaduto e nessuno ti si incula più. Però se ti dice bene ti invitano a un talk-show di terz’ordine a fare il fenomeno da baraccone. E se hai “suerte” vai anche a fare in culo in prima serata. Quei pochi colleghi che hanno conservato ancora (per poco) il posto in giornali e tivù di medio calibro, o quelli più raccomandati che stanno in strutture giornalistiche più grandi, giocano a nascondino con la vita e l’onestà intellettuale, facendo finta che si stia formando una società più consapevole.

Invece, semplicemente, la “democrazia reale” di cui parla proprio Pannella, si è impossessata delle nostre anime e ci fa credere più liberi con la scorciatoia del “diritto all’insulto”. Tutto il resto ci viene tolto, compresa la speranza; però puoi mandare a cagare chi ti va sui social network. Ti puoi spogliare nudo per strada. Puoi fare quello che vuoi basta che non chiedi diritti e aiuto sociale. In tutto questo la parola “merito” è solo un’opinione bislacca come un’altra di quelle che hanno cittadinanza in televisione. Sono nate le startup della logica della grammatica. La storia e altre cosette già da tempo erano state modificate. In questo panorama da incubo, ecco che la nascita dei social network e l’immediato utilizzo sotto forma di abuso e malattia mentale ha di fatto sostituito i vecchi “servi della gleba” con quelli che possiamo definire “i selfie della gleba”.

Individui armati di tecnologia telefonica e narcisismo auto-compiaciuto e sprovvisti di tutto il resto. Compreso il sostentamento alimentare. Ragazzi che si riuniscono in quelli che una volta erano i punti di incontro di generazioni giovanili, ai miei tempi di destra o di sinistra, i pariolini, i compagni o le “zecche”. Luoghi diversi presidiati anche militarmente. Solo che oggi queste riunioni adolescenziali sono all’insegna della massima incomunicabilità: ragazzi e ragazze appoggiati a macchine che non sparano più musica a tutto volume. Ragazzi e ragazze che stanno insieme, ma parlano al telefono con qualcun altro. Uno pensa: ma perché non ve ne state a casa? E moltissimi in effetti fanno così. Tanto che oggi per invitare qualcuno a una festa devi mettere i comunicati su Facebook. Rovesciando l’ottica dell’inclusione e dell’esclusione: una volta, sempre ai tempi miei, negli Anni Settanta, c’era chi non veniva invitato e c’erano “gli imbucati” alle feste. E si svolgevano infiniti psicodrammi. Oggi nessuno si incula più nessun altro. Le persone le trascini fuori di casa solo incendiandogliela e un invito viene vissuto come una noiosa deroga alla routine quotidiana. Che prevede la divisione del tuo tempo da disoccupato giovanile tra computer e telefonino. Ma anche di esodato post-cinquantenne a dire il vero. I “selfie della gleba” sono ben contenti di esserlo. E ancora non sanno che questa società si sta strutturando per non accoglierli mai più. Tanto meno nel mondo del lavoro. Le attività produttive sono sempre più immateriali. E spesso per svolgerle occorrono un decimo dei dipendenti di quelli che una volta erano impiegati nelle fabbriche. Può prodursi più ricchezza, ma non più lavoro. E, come dice Walter Siti, “resistere” od “opporsi” non serve a niente. Si va verso un mondo occidentale con una disoccupazione di massa strutturale e anche intellettuale. Gente che da mattina a sera non saprà letteralmente cosa cazzo fare.

Tanto che agli Stati non resterà che chiedere a banche, multinazionali immateriali tipo Google e Facebook, Amazon e Twitter, e fondi sovrani arabi, russi e cinesi, di aderire ad un nuovo patto fiscale. Le tasse come tali diventerà inutile farle pagare, perché queste società possono sempre andare dal migliore offerente e produrre ricchezza in Italia, ma pagare le imposte in Lussemburgo. Poi le stesse strutture statali si ridurranno all’osso per mancanza di soldi. Ergo, resta una terza via: proporre, a livello europeo, ma l’America lo farà per prima, a questi giganti del nulla di non pagare più tasse ma di devolvere una parte dei profitti al welfare di tutti quei cittadini (nei Paesi in cui esse stesse fanno profitti) che non hanno un lavoro e non lo avranno mai. Un welfare privato indotto, magari anche manu militari, dagli Stati. Una cosa di cui si dovranno fare carico tutte quelle entità private che producono profitti finanziari e nei campi dell’immaterialità, ma che non fanno un solo posto di lavoro in più. Le altre industrie tradizionali, finché esisteranno, potranno optare per il vecchio regime impositivo. Gli strumenti sono molteplici: si potrebbe tornare al filantropismo ottocentesco, ma su base obbligatoria, si possono creare istituzioni ad hoc che eroghino pensioni, redditi minimi garantiti e sanità. E in genere tutte le prestazioni previdenziali e assistenziali. Le stesse industrie immateriali e finanziarie avrebbero in questo il vantaggio di sostenere da una parte la domanda interna dei Paesi e dei Continenti, senza la quale neanche i loro prodotti potrebbero essere più comprati. Dall’altra di uscire da questa logica della ricerca delle tasse da pagare nel miglior Stato offerente. Semplicemente, non si pagano più. Si paga direttamente il welfare della cittadinanza. Cittadini peraltro ridotti a drogati con il “metadone” assistenziale garantito a vita, visto che è utopistico pensare di continuare a illuderli su futuri radiosi che non ci saranno mai più... Io ho questa sensazione, che si vada verso un mondo così. Alcune professioni “pilota”, come quella dei giornalisti e degli scrittori, hanno già sperimentato questa apparente irreversibilità della crisi: se tutti sono giornalisti in Rete e non c’è più alcun possibile criterio di distinzione, una volta che tutto circola gratis su Internet e sui social network, perché io azienda editoriale dovrei assumere pagandolo bene, ma anche solo a norma di contratto nazionale di lavoro, qualcuno che per me ha la stessa resa in pagina di un blogger o di un “quisque de populo” che scrive magari cose anche più intelligenti di un giornalista professionista per il semplice fatto che ha la sua stessa possibilità di conoscere notizie un tempo riservate ai sacerdoti della notizia? Tutti viaggiano, tutti hanno Internet. Tutti possono cercare e trovare cose curiose e interessanti in tutte le lingue del mondo. E tutti possono precedere qualsivoglia inviato in loco anche nel raccogliere notizie di politica estera o in scenari di guerra. Mettono un filmato commentato su YouTube e il gioco è fatto: lo scoop è loro. Il quotidiano è obbligato a riprenderlo. Si trasforma in un contenitore, in un veicolatore che ordina il magma degli altri. Inoltre, tutti sono in grado di scrivere bene. In altre parole si potrebbero fare un ottimo giornale, una buona televisione e una discreta radio anche pagando o sottopagando dei dilettanti di ingegno. A quel punto illudersi di fermare ciò con un sindacato è quasi come quello che pensa di evitare il crollo di una diga fermando l’acqua con la mano sul punto di rottura.

È quello che sta avvenendo oggi e ancora di più avverrà domani. Anche perché esisterà sempre un Paese che ti permetterà di editare on-line quello che un altro ti vieta. Lo stesso dicasi per gli scrittori, dove già da tempo esiste il “fai-da-te” della pubblicazione e poi con il mercato degli ebook, per la maggior parte monopolizzato da Amazon, la cosa è diventata eclatante. Allora così come molti giornali si sono accordati con Facebook e Twitter per veicolare gli articoli e partecipare agli utili sulla pubblicità, tendenza che diventerà parossistica portando probabilmente alla fine delle discipline mondiali sul diritto d’autore, perché non pensare anche a un piano B di tutti gli Stati occidentali con quelle stesse multinazionali della finanza e della comunicazione che assorbono così tanta ricchezza senza redistribuire nulla?

Più che far pagare loro più tasse, rischiando di farli scappare a gambe levate verso aree pronte e prone alla prostituzione economico-fiscale, sarebbe meglio concludere accordi per far gestire a questi ricconi quel welfare che nessuno Stato riesce più a garantire. Specie in presenza di fenomeni come l’immigrazione di massa dalle zone poverissime e ancora derelitte dell’umanità. Vedrete se non andrà a finire così. Il reddito di cittadinanza sarà per sempre e lo pagheranno quelle stesse grandi imprese interessate a mantenere il consumismo di massa. Lo Stato verrà sollevato dall’onere. E presto la sua corporeità intermedia si dissolverà.

 

(*) Tratto dal libro di D. Buffa “L’Affitto della Torre d’Avorio” (Sempre più caro) 

 

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:15