Panem et musea:   il “Decreto Colosseo”

Apparentemente, la risposta del governo allo sciopero del Colosseo di venerdì scorso è stata risoluta e tempestiva. Una dimostrazione della forza della politica e delle istituzioni.

Eppure forse è vero proprio il contrario. Questa vicenda rivela la debolezza dei governi - non soltanto di quello attuale - davanti ai sindacati. Nella forma, il decreto legge è tutto fuorché segno di quella capacità decisionale che occorre per governare. È (dovrebbe essere) uno strumento per fronteggiare problemi imprevisti. Se diventa la risposta all’ultimo minuto a problemi noti da lustri, significa che si è stati incapaci di sciogliere i nodi prima che venissero al pettine.

Non è la prima volta che il Colosseo viene chiuso ai turisti per un’assemblea sindacale. Era già avvenuto nel 2013. Ma è poco più che propaganda pensare che col decreto di venerdì si sia risolto un problema antico. Il rapporto fra politica e sindacati è, nel nostro Paese, molto particolare: per usare un eufemismo. Il sindacalismo in Italia è stato molto più che il terreno di mediazione delle relazioni industriali. Il sindacato ha fatto e fa politica, ha fortemente condizionato azione e rivendicazioni dei partiti di sinistra, ha goduto di pieno potere d’interdizione sulle loro leadership.

La politica che dice “basta” merita senz’altro appoggio e supporto. Ma per dire “basta” non basta un decreto. Nella sostanza, l’aggiunta dell’apertura al pubblico di musei e luoghi di cultura tra i servizi pubblici essenziali è una misura sproporzionata rispetto allo scopo. Non è certo commendevole l’immagine dell’Italia che chiude i propri gioielli ai turisti. Specie se lo fa a causa di una protesta sindacale, appendendo i panni sporchi davanti ai loro sguardi. Tuttavia, inserire l’apertura al pubblico dei musei e dei luoghi di cultura non vorrà solo dire che eventuali scioperi dovranno essere autorizzati o che si potrà procedere a precettazione. Vorrà dire aver equiparato l’accesso alle cure a quello agli Uffizi.

I servizi pubblici essenziali, che portano con sé un potere pubblico non solo di controllo ma anche, potenzialmente, di gestione diretta, sono tali dovrebbero servire a garantire, dice la legge, “il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione”.

Vale la pena vivere anche per visitare la Reggia di Caserta o il Palazzo dei Normanni, ma si può campare anche senza. Col pretesto di ridimensionare (com’è auspicabile) lo strapotere delle nostre trade union, si finisce quindi per allargare quello dello Stato. È molto probabile che l’eredità più concreta di questo decreto non sarà un sindacato finalmente ricondotto a quello che sarebbe il suo ruolo legittimo e perfino auspicabile in una società libera: la rappresentanza dei lavoratori.

Al contrario, l’eredità più concreta di questo decreto potrebbe essere una definizione a fisarmonica dei “servizi pubblici essenziali”. L’esatto contrario di ciò che di cui ha bisogno un Paese in cui la politica ha senz’altro troppe, non troppo poche, pretese.

 

(*) Editoriale tratto dall’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:28