Pansa, ottant’anni controcorrente

Ottant’anni da bastian contrario. Icona della sinistra fin da studente universitario a Torino (tesi di laurea con il professor Firpo sulla Resistenza), giornalista di punta prima a “La Stampa” e al “Corriere della Sera” e poi de “la Repubblica” e “L’Espresso”, Giampaolo Pansa ha attraversato il mondo dell’editoria da dentro. Non si è risparmiato niente e non ha risparmiato nessuno. Neppure il fondatore del quotidiano romano e il suo editore-amico: Carlo De Benedetti. Maestro di giornalismo, cronista attento e curioso fin dal primo grande reportage sul disastro del Vajont nel 1963 (“scrivo da un paese che non c’è più”) e poi le inchieste su Piazza Fontana, sullo scandalo Lockeed che contribuì a portare alla luce con Gaetano Scardocchia, ha percorso una carriera prestigiosa vino alla vicedirezione de “la Repubblica” ai tempi di Eugenio Scalfari, chiamato dai giornalisti “Barbapapà”.

Quando ha scritto “Tipi sinistri. I giorni della casta rossa” per le edizioni Rizzoli (2012) era già in un’altra orbita. Quella che dal 2003 lo aveva portato a scrivere il capolavoro “Il sangue dei vinti”, poi “La grande bugia” e in sequenza “I gendarmi della memoria” e, sulla stessa lunghezza d’onda, “Il Revisionista”, “I cari estinti”, “I vinti non dimenticano”. È il periodo in cui lo accusano di essere di destra per i libri revisionisti sulla guerra civile.

Pansa non se ne preoccupa, perché, ha detto, “ho imparato da tempo una verità: le idee camminano sulle gambe degli esseri umani. Un principio anche per i partiti”. Sempre controcorrente, dipinge senza riguardi “i big rossi” collocandoli in una sequenza di gironi infernali, “mirando di raggiungere due obiettivi: sfuggire alla sudditanza nei confronti del sinistrismo italico (in troppi ritengono, precisa, che stare a sinistra sia bello, giusto, elegante mentre la destra è comunque sporca, brutta e cattiva) e offrire al lettore un “racconto divertente, irrispettoso, privo di baciamani”.

Un lusso da cronisti con i capelli bianchi.

Ma quando era più giovane, e “di sinistra”, cosa faceva? Lo racconta parlando e sparlando di Eugenio Scalfari, considerato un direttore “impareggiabile” che per vent’anni (dal 1976 al 1996) si è dedicato con tutte le energie fisiche e intellettuali solo a “la Repubblica”. Pansa era vicedirettore con Gianni Rocca e se ne andò nel 1991 per diventare condirettore con Claudio Rinaldi a “L’Espresso”. Quattordici anni era un tempo molto lungo.

Al momento dell’uscita, Pansa comprese il lato nascosto di Scalfari: “Si sentiva, scrive Pansa, il patriarca di una grande famiglia. Barbapapà pensava di essere il miglior direttore possibile, il più generoso, il più democratico, il più altruista. Non voleva essere lasciato da nessuno dei giornalisti che rispettava e gli erano utili”.

Scalfari non poteva soffrire Rinaldi perché vedeva in lui un concorrente pericoloso che avrebbe potuto soppiantarlo alla guida de “la Repubblica” e perché lui e De Benedetti erano amici intimi e questo disturbava Eugenio”. Pansa racconta poi la guerra di Scalfari a Bettino Craxi, uno scontro all’arma bianca quando le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro. Craxi era l’alfiere della trattativa per salvare il leader democristiano, Scalfari era il campione della fermezza in base al principio che lo Stato non doveva trattare con il terrorismo (tesi condivisa anche da Pansa). Poi la stagione della guerra con Berlusconi, il rapporto con Ciriaco De Mita ed Enrico Berlinguer.

Il sogno coltivato a lungo da Scalfari era quello di essere nello stesso tempo il capo di un grande giornale e un leader di partito. E così quando Pansa passò all’Espresso, “i nostri rapporti a poco a poco si fecero inesistenti. La lunga amicizia e il ricordo del lavoro in comune per tanti anni presero a contare sempre di meno”.

Molti i segnali indicavano che Scalfari non aveva gradito “Il sangue dei vinti” e i libri successivi e che l’ambiente del gruppo dell’ingegner De Benedetti lo considerava un estraneo, tanto che, alla cerimonia funebre di Gianni Rocca, Scalfari si comportò come se non riconoscesse Pansa.

E quando il giornalista-scrittore di Casale Monferrato era all’Espresso, dove è rimasto per 17 anni, come si comportava? Un episodio su tutti. Era l’aprile del 1993, in piena bufera di Tangentopoli, e durante l’assemblea ad Ivrea della Olivetti un azionista chiese a De Benedetti se avesse mai pagato tangenti o finanziato partiti. La risposta fu secca: “mai”.

A maggio però uno scoop dell’Avvenire rimbalzato su altri giornali, tra cui il Corriere della Sera, titolarono: “De Benedetti e le tangenti. Accuse e secche smentite”, oppure “Bufera sul gruppo De Benedetti, i soldi al Pci, una società del gruppo avrebbe pagato per appalti ferroviari”. La società era la Sasib. La redazione entrò in fibrillazione . Dopo un colloquio con Rinaldi, Pansa pensò di occuparsene lui nella rubrica “Il Bestiario” essendo il settimanale in chiusura. Pansa ricorda oggi che “battevo con furia sui tasti della mia Olivetti e dentro di me mandavo l’ingegnere a quel paese”. La pagina si concludeva così: “Caro Carlo, adesso devi raccontare che cosa hai incontrato nel tuo lavoro di capo d’impresa. Il marcio che sei stato in grado di respingere e quello che hai dovuto accettare. Questo lo devi alla tua immagine d’imprenditore e di cittadino. Ma lo devi soprattutto al nostro Paese. Tu sai che la crisi italiana non avrà sbocco limpido se resteranno zone buie, verità non dette, storie inesplorate. Allora scegli i tempi e i modi per rendere questo servizio all’Italia. Però armati di coraggio e fallo”.

È stato fatto? Carlo De Benedetti, il 16 maggio 1993 che era di domenica, il pomeriggio andò al Palazzo di giustizia di Milano. Salì le scale, raggiunse il corridoio della Procura, entrò nell’ufficio del Pm Antonio Di Pietro e gli disse: “Anch’io ho pagato le mie tangenti: Quante? Più o meno una ventina di miliardi di lire”.

A chi, è un mistero. Pansa prima era considerato un giornalista di sinistra dal momento che ha lavorato per molti anni a “la Repubblica” e “L’Espresso” arrivandoci dal “Corriere” progressista di Piero Ottone. Dopo aver scritto più di un libro revisionista sulla guerra civile, è stato bollato da qualcuno come “vecchio fascista” e da altri come giornalista di destra. Sono etichette che non gli fanno né caldo né freddo. Pansa ritiene che la libertà d’opinione consiste soprattutto nell’essere giudicati per la qualità del proprio lavoro. Un traguardo non irraggiungibile anche in Italia dopo la Prima, la Seconda e la Terza Repubblica, perché “non esiste una grande differenza tra destra e sinistra”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:29