Regeni, missing triste all’italiana

Sepolto nell’anfratto della memoria sta il film “Missing” di Costa Gravas che nel 1982 non solo vinse a Cannes, ma divenne un cult per la sinistra di tutto il mondo, collegando il movimento contrario alla guerra in Vietnam alla condanna per il golpe cileno di Pinochet. Nel movie Jack Lemmon, che sfiorò l’Oscar, interpreta Ed Horman, imprenditore conservatore newyorchese, venuto in Cile a cercare il figlio Charles. Malgrado l’iniziale avversione per nuora ed amici del consanguineo, tutti leftist e freakettoni, Ed dovrà dare loro ragione, scoprendo l’omicidio di Charles per mano dei golpisti timorosi della diffusione di accuse sul coinvolgimento Usa nel colpo di Stato contro Allende. Il film uscì sulle tracce del libro del 1978 di Thomas Hauser che nell’Esecuzione di Charles Horman: un sacrificio americano, narrò l’effettivo assassinio degli americani Horman e Teruggi, sepolti in un muro dello Stadio nazionale di Santiago. Negli anni l’America giudiziaria ha sostenuto quella culturale nella condanna degli eventi. È stata respinta la richiesta danni intentata da Davis, ambasciatore Usa a Santiago del 1973, contro la Polygram Entertainment; poi, nel 1999, la desecretazione di un memorandum del Dipartimento di Stato vecchio di vent’anni ha rivelato la piena corresponsabilità dell’ambasciata Usa nella morte del compatriota, considerato dai cileni un nemico politico.

Malgrado l’enfasi raccolta attorno a quel “Missing”, nondimeno l’America politica non ha mai smesso di considerare quel golpe, carico di sangue, una vittoria. Il mantenimento del potere di Allende avrebbe consegnato al blocco sovietico il Cile, il Paese più efficiente del Sudamerica. Per Washington, era ben chiaro, negli anni Settanta della Guerra fredda, Il rischio di perdere tutto il subcontinente a favore di Mosca. In questi casi à la guerre comme à la guerre.

Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dalla sicurezza del regime militare, appare un nuovo caso Horman all’italiana, con tutte le differenze del caso. L’Italia non è l’America, l’Egitto non è il Cile e diversi sono oggi i sistemi ed i tempi di comunicazione, tanto che i mesi necessari quarant’anni fa per arrivare ad un barlume di verità oggi si sono ridotti ad una decina di giorni. Horman, straniero pericoloso che parlava sia con i golpisti che con i rivoluzionari, venne fermato, interrogato, pestato, torturato ed ucciso. Fin qui la corrispondenza con la vicenda Regeni è piena. Ed è facile prevedere che, malgrado l’indignazione ufficiale, la sua orribile fine non interromperà il sostegno occidentale al regime del generale egiziano al-Sisi, né alla sua repressione contro ogni movimento di piazza, considerata preziosissima perché rivolta soprattutto contro il movimento popolare musulmano e contro ogni rischio di infiltrazione dell’Isis nel Paese dei Faraoni. Non solo, come Pinochet rappresentò un baluardo antisovietico in tutto il Sudamerica, così oggi al-Sisi è l’unico in grado di liberare l’Africa del Nord, in particolare la Libia, dal rischio dell’avvento definitivo dello Stato islamico di fronte alle nostre coste.

Come Horman, anche Regeni si ridurrà nel tempo ad un incidente di percorso. Per lui non si faranno neanche film, che servirebbero solo a mettere in imbarazzo il governo di sinistra di Matteo Renzi, primo a felicitarsi ed incontrarsi con il generale egiziano; e che offrirebbero buone ragioni alla testimonianza terroristica islamista. Affiora poi un altro pensiero in queste ore di cordoglio e di esaltazione alla memoria della giovane vittima. I martiri dell’epoca del Vietnam e del Cile, in tutto il mondo, America inclusa, cadevano convinti di un’idea anticapitalistica, che poteva contare su diversi grandi sistemi statali di riferimento alternativi, come Russia e Cina, per quanto criticati e criticabili. Quei martiri, reduci dalla contestazione del 1963 e del 1968, anche nella vita privata, inseguivano mode, modi, mentalità lontane dal classico way of life occidentale.

Oggi, i giovani intrisi di buone intenzioni per i diritti umanitari, compiono percorsi guidati dalle istituzioni europee; i migliori di loro si affinano a Parigi, Strasburgo, New York e, come nel caso di Giulio Regeni, Cambridge, dove incontrano le sfaccettature complesse del potere di oggi, che sfoggia più accenti anti-potere che antichi accenti autocratici. Questi giovani, per quanto coltivino ideali rivoluzionari di giustizia, difficilmente potranno superare l’eversione esibita dai loro docenti e leader. Così, lascia di stucco che i riferimenti dei Regeni, nascosti e profondi, restino tutt’oggi, il trittico Pasolini-Gramsci-Berlinguer, una trimurti cui 30 anni fa i comunisti italiani si appesero solo per salvarsi da un impresentabile passato (tentativo, peraltro, neanche riuscito). Vengono legittimi interrogativi sul senso e sulle modalità dell’alta formazione politologica che sembra coltivare il passato più che il futuro. E lo sconcerto rispetto ad un Horman, che, almeno, aveva ancora diritto, razionalmente, ai suoi ideali. Si prolunga un’ombra ancora più triste, sulla giovane vittima italiana, testimonianza inutile, da tutti i punti di vista.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:00