“Amoris laetitia”, la   famiglia di Francesco

Nell’introduzione all’Esortazione Apostolica post-sinodale sulla famiglia, di Papa Francesco, denominata Amoris laetitia, si legge: “Gesù insegna che non siamo noi a dover morire (o uccidere) per lui, per difenderlo, ma che è lui a morire per noi, per salvarci”.

L’introduzione è stata curata da due sociologi dell’Università Cattolica di Milano, non dal Pontefice. L’intero Documento è l’occasione per una prima, sommaria, riflessione sui modi di concepire, nelle diverse religioni, il ruolo della famiglia e del matrimonio. L’Esortazione ricorda che nella tradizione cristiana c’è stata anche la sottomissione della donna al marito, in base alla nota invocazione di San Paolo: “Le mogli siano sottomesse ai loro mariti (Ef 5,22)”. Ma - aggiunge Paolo - “i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il loro corpo (Ef 5,28)”.

Di questa idea arcaica di unione coniugale il documento papale del 19 marzo non ha più traccia, mentre San Paolo è ricordato soprattutto per il suo “Inno alla Carità”, che collega l’amore al matrimonio in questi termini: “La carità è paziente, benevola, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13,4-7)”.

È su queste basi che si può salvare la famiglia, per il Papa, applicando il principio della misericordia, senza imporre regole, precetti dottrinari e imperativi categorici. Chi si aspettava un insieme di comandamenti e sanzioni rigide è rimasto deluso. Il documento, pur ribadendo la difesa dell’embrione, la contrarietà all’aborto, alle unioni omosessuali e alla Pma eterologa, si limita a proporre la disciplina dell’ascolto, per capire ed aiutare tutte le situazioni di crisi. Senza alcuna discriminazione. Tutto si regge su un solo principio: il vangelo del matrimonio e della famiglia non esiste se non si parla in modo specifico dell’amore. Alla famiglia non è attribuita direttamente una missione sociale, come capita nella teologia di altre religioni, anche se nel documento si legge che “la famiglia è l’ambito della socializzazione primaria, perché è il primo luogo in cui si impara a collocarsi di fronte all’altro, ad ascoltare, a condividere, a sopportare, a rispettare, ad aiutare, a convivere (236)”. “È un’educazione al saper “abitare” oltre i limiti della propria casa”.

Sul punto viene spontaneo il raffronto con la teologia della religione musulmana, dove la famiglia assolve invece una concreta funzione sociale, al fine di preservare l’unità e conseguire il successo della religione islamica. Per questo, l’unità famigliare islamica è il primo valore, irrinunciabile, da garantire sempre, facendo ricorso a un catalogo di norme rigorose e stringenti, dotate anche di forza giuridica. In vero, per il Corano, le donne che rifiutano di seguire la volontà del marito creano massimo disordine (Corano IV, 34 e 128), pertanto, nel solco dell’unità famigliare, la disuguaglianza tra i sessi diventa lo strumento per la conservazione del matrimonio. È tanto vera questa osservazione che, per Vercellin, “l’Islam è una religione che ha innalzato la disuguaglianza tra maschio e femmina ad architettura sociale”.

Del resto, nell’Islam la famiglia non è soltanto la prima cellula della convivenza tra l’uomo e la donna, ma rappresenta il primo anello della catena della socialità collettiva, che si espande dalla famiglia fino alla Umma, passando per il clan, la tribù, la nazione. Per questo è una istituzione fondamentale. Qui, la persona conosce il pregio dei valori sociali solo attraverso la famiglia che è la struttura sociale naturale. Occorre curare la famiglia affinché l’uomo appaia normale ed educato, poi la tribù come riparo sociale e scuola sociale naturale che educa l’uomo in ciò che trascende la famiglia.

Due approcci molto diversi. Da una parte l’esigenza d’incoraggiare l’unione coniugale sulla base dell’amore, dall’altra l’obiettivo di conservare l’unità della famiglia islamica, come precondizione per mantenere unita la comunità religiosa e sociale. Due visioni stridenti, che devono far riflettere sulle modalità con cui il dialogo interreligioso va impostato. Finché il dialogo s’intavola tra persone di religione diversa, il dialogo è possibile ed ha tutti i presupposti per essere fruttuoso. Se invece si tratta di confrontare dottrine teologiche, rigide e predefinite, l’operazione è molto più difficile. Con l’Islam infatti non si confrontano solo regole etiche e teologiche, perché l’Islam oltre ad essere fede e dottrina, è anche, e soprattutto, diritto e politica, tramite cui costruire la comunità islamica universale, a partire proprio dall’unità delle famiglie.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03