C’è bisogno di persone come Mauro Anetrini

sabato 30 aprile 2016


Altre volte il mio blog ha ospitato scritti di Mauro Anetrini, avvocato bravo (tutti i suoi colleghi di Penale lo sottolineano) e naturalmente homo politicus. Nell’analizzare i problemi, la sua riflessione non è mai settoriale, circoscritta all’ambito della sua chiesetta personale, ma si estende alle ricadute sul resto della società. Dote appunto del “politico” vero, soggetto altamente apprezzabile quando è autentico e non un semplice faccendiere o un mediocre portaborse-ventriloquo del potente in voga. Così, quando parla di giustizia, il tema sul quale più si concentra, non parla per interessi di bottega, ma per il suo ideale alto di come uno Stato civile e di diritto dovrebbe essere. È una prerogativa scoperta, ammetto con sorpresa, nei colleghi del Penale. Certo, non investe tutti gli avvocati che si occupano di questa materia, ma devo dire che una folta, nobile minoranza è così.

Nel momento storico in cui il sindacato dei magistrati - che questo è l’Anm, inutile che protestino - si è dato un capo come Piercamillo Davigo, temo che si debba andare ai materassi, a meno che il Signore ci faccia la grazia di far diventare tondo un uomo assolutamente quadrato, nella sua visione sceriffesca della legge. In questi giorni, dopo le polemiche innescate proprio dal dottor Davigo con un’improvvida esternazione sul Corriere (a cui molto bene ha replicato un suo collega, Raffaele Cantone, il giorno dopo), il Governo, per accarezzare per il verso suo la “bestia”, ha rimesso al centro dell’agenda la questione prescrizione. Io francamente sono basito e vorrei chiedere ai miei amici, renziani di ferro, come Cataldo Intrieri e Riccardo Cattarini (quest’ultimo anche membro del Consiglio direttivo nazionale del Partito Democratico), cosa ne pensano.

È facile manipolare le persone aizzandole sull’ingiustizia che il possibile colpevole di un delitto, specie se grave, possa farla franca semplicemente perché il processo non si è concluso in un certo tempo. Ma guardiamolo da vicino questo tempo... si parla di anni e anni, e quando i reati sono appunto gravi si dilata ancora di più.

Certo, alla maggior parte della gente, che in Tribunale non ci finisce (ma non siate troppo sicuri di questo, che il panpenalismo dilaga, ed è sempre più facile finire, anche per errore, nei cassetti di una Procura), non gli frega nulla se uno vive la condizione di imputato in eterno. Ma appunto questo non c’entra nulla con i principi propri di uno Stato di Diritto, e non a caso l’Italia è spesso multata per violare quello della “ragionevole durata del processo”.

Senza contare che da quando è iniziata la crisi economica, fior di economisti - tra i primi ricordo gli editoriali iniziati almeno 7 anni fa di Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera, ma ormai è un coro - evidenziano come la lentezza dei processi, e quindi la risposta alla domanda di giustizia, sia tra i motivi essenziali per cui gli investitori, stranieri ma non solo, abbiano sempre più scartato il nostro Paese come posto in cui fare impresa. Le conseguenze, lo vediamo sono drammatiche, sul piano occupazionale, fiscale, di bilancio statale. Eppure, in questo contesto, i magistrati strepitano perché i tempi del processo penale siano dilatati all’infinito. Io sogno una Unione europea che tolga le castagne dal fuoco dei nostri pavidi governanti - gli avvisi di garanzia stroncano con facilità le carriere - stabilendo in concreto i confini della “ragionevole durata”, con tempi certi, che sicuramente non corrispondono alle briglia sciolte pretese dalle toghe pregiate.

Ecco, su questo spinoso argomento scrive Mauro Anetrini, e io pagherei di mio perché i tristi giustizialisti che scrivono sul “Corsera” - parlo di Bianconi, pilatesco per lo più, Ferrarella e Sarzanini, più “davighiani” ho motivo di pensare - intervistino Mauro e che lui, che a polemica non scherza, ad un certo punto chieda a sua volta all’intervistatore: “A lei 16 anni per un processo di peculato sembrano pochi?!”. E sentire la risposta di questi signori.

Si preparano tempi cupi, e, come si dice, quando il gioco si fa duro è meglio che siano i duri a giocare.


di Stefano Turchetti