Il “referendone”   e il “referendino”

Ci sono baggianate della pseudo riforma che, pur essendo, magari, marginali o che marginali possano apparire, sono così inconcepibili, così inutilmente complicate ed assurde, da essere ridicole e rivelatrici di tutto un meccanismo mentale e culturale che pervade ed infetta tutta la riforma.

Prendiamo il referendum abrogativo. La Costituzione del 1948 lo introdusse, soprattutto per volontà dei Costituenti Democristiani, come un “contropotere”, uno strumento da poter esser usato contro norme di legge che, prodotte da un sistema parlamentare verso il quale la parte cattolica non aveva mai del tutto superato ogni diffidenza, avrebbero incontrato il veto che, senza il filtro della classe dirigente, dei parlamentari, il popolo (il popolo cattolico) con il suo voto, avrebbe potuto opporre a leggi “innaturali”. Si può dire che il referendum abrogativo fosse stato introdotto proprio pensando ad una eventuale legge sul divorzio. Così come, in effetti, proprio contro la legge che introduceva il divorzio approvato faticosamente nel 1970, per la prima volta fu sperimentato l’uso del referendum.

Andò come sappiamo. Il referendum valse, invece che a cancellare, a confermare, a rafforzare l’intangibilità di quell’istituto. Da allora il referendum fu utilizzato a proposito ed a sproposito. Vi fu un eccesso, una faciloneria, che non giovarono né al prestigio dell’istituto, né alle libere istituzioni del nostro Paese. Vi furono referendum in cui il “quorum” dei votanti (il 50% + 1) non fu raggiunto, altri in cui vinse la proposta abrogativa, altri in cui fu bocciata. La norma che stabiliva la necessità, perché fosse valido il referendum, della partecipazione di almeno la metà degli elettori era ed è saggia, perché altrimenti una legge potrebbe essere abrogata da una maggioranza di una minoranza degli elettori, che potrebbe essere anche una ben piccola quota di essi.

La cosiddetta riforma ha voluto mettervi mano. Come? Impasticciando. Abolendo il quorum? No, riducendolo? Sì, ma solo in certi casi! E come? Intanto di un referendum facendone due. Due? Sì due! Il referendino, cioè il referendum che sia richiesto da più di 500mila elettori ma meno di 800mila ed, invece, il referendone richiesto con più di 800mila firme. Per il referendino è valido l’esito se vota almeno il 50 per cento più uno degli elettori.

Per il referendone c’è invece uno sconto: è valido se vota la metà più uno della percentuale dei votanti alle ultime elezioni politiche. Se, ad esempio, alle elezioni del 2018 dovesse aver votato il 58 per cento degli aventi diritto, in un “referendone” nei successivi cinque anni basterà che vada a votare il 29% + 1 degli elettori. L’arzigogolo è in sé più ridicolo che irrazionale. Ma messe a confronto le due diverse condizioni di validità, ci si accorge che, oltre che ridicola, la differenza tra referendino e referendone è mostruosa e che corrisponde al solito disegno di privilegiare quello che oggi Matteo Renzi ritiene il perpetuo suo potere, gli interessi del “Partito della Nazione”.

Quando si va a votare, referendino e referendone sono identici. Non c’è differenza di importanza del quesito, di rilevanza del relativo esito. Il corpo elettorale è lo stesso. Il fatto che il “referendino” sia stato indetto da 500mila richiedenti, mentre il “referendone” lo è stato da 800mila non ha nulla a che vedere con l’importanza della questione e tanto meno con una qualsiasi presunzione di maggior interesse dell’elettorato.È ridicolo, ma, soprattutto, è truffaldino ritenere che, avendo il referendone avuto il crisma di trecentomila richiedenti in più, può fare a meno di quella della partecipazione “ultra dimidium” richiesta, invece, per il referendino.

Tutti sanno che la raccolta delle firme per indire un referendum non è più o meno facile in relazione al presunto maggior interesse popolare all’abrogazione proposta, ma dipende pressoché esclusivamente dalla capacità organizzativa e finanziaria dei promotori, dalle disponibilità degli “autenticatori” delle firme, da condizioni che nulla hanno a che fare con il merito del dilemma proposto al Popolo.

E allora? L’assurda cavolata dei “due pesi e due misure”, del referendino e del referendone nasce, oltre che dal ragionar contorto di tipo etrusco- renziano, dall’interesse di partito. Oggi il Pd, se non è proprio un partito è ciò che più vi si avvicina in Italia. Ha sedi, consiglieri comunali abilitati alle autenticazioni delle firme, e soldi. Se dovesse aver interesse ad indire un referendum, potrebbe farlo con assai minor difficoltà di ogni altro. I suoi sarebbero facilmente “referendoni”, con lo sconto di fine stagione per la partecipazione popolare necessaria. Questa è la democrazia di Renzi, questa la razionalità della sua riforma costituzionale. E a questo sragionare che, prima di tutto, va detto No! No! No!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58